Voce di Napoli | Navigazione

La Pasqua napoletana è servita tra uova, casatielli e pastiere

Se in questo preciso istante dovessi domandare ai napoletani l’alimento protagonista della tavola carnascialesca, sarebbero in molti a rispondermi il maiale. Allo stesso modo è risaputo che durante le festività pasquali, a Napoli, non possono mancare assolutamente le uova, il grano, i formaggi e gli agnelli. Si tratta in fondo di una cultura gastronomica conosciuta ai più ma cosa sarebbe successo, invece, se avessi domandato circa l’origine storica di alcuni piatti tipici pasquali della tradizione partenopea? Molto probabilmente avrei avuto come unica risposta il silenzio. Proprio così. Non tutti, infatti, sono a conoscenza del fatto che la Pasqua cristiana altro non è che l’ultima veste indossata dalle celebrazioni primaverili che avevano luogo millenni fa per salutare appunto il risveglio della Natura.

Alcuni dei piatti che ancora oggi vengono consumati durante i giorni in cui si celebra la resurrezione del Cristo hanno un atavico legame con antichi riti della fertilità durante i quali venivano offerti in dono alle divinità soprattutto grano e uova. Quest’ultimo ad esempio simboleggia la rinascita. Non è strano quindi che tale alimento venisse adoperato come ingrediente principe per l’allestimento dei banchetti dedicati alla Dea Demetra durante i riti primaverili. Tradizione questa viva anche ai giorni nostri e che si rinnova ogni qual volta vengono scambiate, decorate o utilizzate le uova per la preparazione di piatti dolci e salati.  Un altro grande protagonista della tavola di Pasqua è il grano. A Napoli con questo ingrediente vengono, ad oggi, ancora preparati il casatiello e la pastiera, entrambi derivanti da focacce che i romani, e i greci prima di loro, erano soliti preparare.

Il casatiello, ad esempio, è un lievitato arricchito con formaggio, salame, uova e strutto le cui origini potrebbero essere fatte risalire, non si tratta assolutamente di una ricostruzione storica errata, addirittura ai greci. Una pietanza del genere, infatti, rientrava tra le offerte alimentari, almeno così viene raffigurato in alcuni bassorilievi, da devolvere alla Dea Demetra. Nel bassorilievo nº 756 del Louvre sono stati scolpiti dei pani con un buco al centro quasi come si trattasse di un omphalos o, che dir si voglia, ombelico. Questi lievitati venivano solitamente insaporiti con altri ingredienti ed erano comunemente chiamati plakountes che rimadava come significato a qualcosa di piatto. Questa antica parola greca ha poi dato origine al termine anatomico di placenta proprio per la somiglianza di quest’ultima a un disco schiacciato. E non solo.

Risale, infatti, al IV secolo a.C. il frammento del commediografo Antifane in cui viene fornita una breve descrizione del tradizionale plakountes. Si trattava di sottili strati di pasta di pane insaporiti con miele e formaggio di capra racchiusi all’interno di un guscio di pasta più resistente. Insomma una vera e propria delizia del palato. Col tempo questa ricetta venne assorbita dalla cultura romana che non solo vi apportò delle modifiche ma aggiunse alla dicitura anche il termine caseata, derivante da caseus, parole latina che sta ad indicare il formaggio. Nacque così la placenta caseata. Si tratta di una nomenclatura che non dovrebbe suonarvi nuova visto che da questo dolce romano deriva non solo la cassata siciliana ma anche la cheesecake anglosassone, per non parlare poi della ‘napoletanissima’ pastiera. Che fine ha fatto però il casatiello?

Le pietanze a base di formaggio prima citate sono di sapore dolce. Come si è passati dunque alla famosa torta rustica napoletana salata? Sono stati sufficienti venti secoli. Nel caso del casatiello, ad esempio, il periodo di magra che precede la Pasqua, stiamo ovviamente parlando della Quaresima, ha contribuito a plasmare le antiche torte greche e romane. E fu così che per salutare l’avvento della Primavera vennero aggiunti alle placenta caseata ingredienti più saporiti come, ad esempio, salumi, strutto ed uova. Queste ultime poi venivano collocate sulla superficie della preparazione e fermate da due strisce di pasta a forma di croce, un evidente riferimento alla Passione di Cristo. All’interno del rustico partenopeo non poteva ovviamente mancare il formaggio o, per meglio dire il cacio, chiaro rimando al caseus romano.

Della pastiera, invece, considerata a tutti gli effetti la regina della gastronomia napoletana si possono ricostruire solo le origini conventuali. Eppure esiste una teoria alquanto suggestive che fareste bene a leggere con molta attenzione. Pare infatti che lì dove sorge il Convento di San Gregorio Armeno un tempo, forse, sorgeva il sacello di Demetra. Solo una coincidenza? Forse. Qualcosa sotto le ceneri sembra comunque covare visto che sia la pastiera che le focacce offerte alla dea Demetra possono vantare di avere una particolarità che le accomuna: entrambe prevedevano, infatti, l’utilizzo del chicco di grano intero e non ridotto a farina. Tale antica usanza parrebbe derivare dal divieto di macinare grano come segno di rispetto nei confronti della Madre ( Demetra per i Greci, Cerere per i Romani, Iside per gli Egiziani e per altri ancora Cibele ) che aveva perduto il suo amato.

Anche l’aspetto esteriore della pastiera, caratterizzato da strisce di pasta frolla, in genere in numero di sette, unite a formare una sorta di rete pare, secondo un’ipotesi molto curiosa, non potrebbe essere altro che un chiaro riferimento all’impianto stradale della vecchia Neapolis, formato da tre decumani e quattro cardi principali. E il fatto che poi questa delizia del palato venisse data in offerta alla sirena Parthenope in speciali occasioni aumenterebbe solo la portata suggestiva della teoria esposta in precedenza. La Pasqua napoletana non è semplicemente una celebrazione religiosa perchè, come capita sempre nel capoluogo campano, il passato mostra i suoi mille volti, tutti in contrasto gli uni con gli altri ma tutti perfettamente e ugualmente interscambiabili.