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Giuseppe Verdi, il Teatro San Carlo e la censura borbonica

Uno dei fiori all’occhiello della nostra città, il Teatro San Carlo, porta nella storia e nel nome l’impronta di Carlo di Borbone, il sovrano che ne volle la nascita. Poco più di un secolo dopo la sua fondazione, il Teatro San Carlo era una tappa imprescindibile per chi voleva consacrare la propria musica in ambito operistico. Giuseppe Verdi non ne aveva bisogno, ma il San Carlo non poteva sfuggirgli. E al San Carlo non poteva sfuggire Giuseppe Verdi.

Il sodalizio sembrava destinato ad ogni gloria, ma le cose andarono diversamente. A causa della censura Verdi si vide costretto a sbattere la porta in faccia al teatro, e a portare il suo lavoro operistico altrove, dove sarebbe stato maggiormente tutelato, preservato, e rimaneggiato in maniera senz’altro minore che nella Napoli borbonica. L’opera incriminata era Un Ballo in Maschera. L’odissea di Verdi per rappresentarla durò ben due anni.

Tutto comincia il 5 Febbraio del 1857, quando Giuseppe Verdi accetta di musicare per conto del Teatro San Carlo un’opera non inferiore a tre atti, basata su “Gustave III, ou Le bal masqué”, libro di Eugène Scribe da cui Antonio Somma avrebbe ricavato un libretto d’Opera. In realtà avrebbe voluto lavorare al Re Lear, come da accordi risalenti all’anno precedente, ma considerando i cantanti che il Teatro gli metteva a disposizione, rinunciò subito all’intento, definendoli esplicitamente inadeguati.

Un Ballo in Maschera nasce dunque come soluzione di ripiego. In ogni caso la scelta viene apprezzata dal compositore milanese, in special modo per il soggetto: l’omicidio di un re svedese avvenuto nel 1792. Questa storia aveva già calcato le scene di molti teatri, grazie agli allestimenti predisposti per opere precedenti basate sullo stesso soggetto, di Auber, Gabussi e Mercadante, proposte rispettivamente nel 1833, nel 1841, e più recentemente nel 1843.

Dopo cinque mesi di lavoro, Giuseppe Verdi spedisce l’opera a Napoli. Per cinque mesi non aveva dato notizie di sé. Non rispondeva nemmeno ai continui solleciti che provenivano da Napoli da parte dei responsabili del San Carlo, timorosi che il Cigno di Busseto avesse dato forfait senza darne comunicazione. Le lettere di sollecito, la diffidenza, avevano già cominciato seriamente ad infastidire Giuseppe Verdi, ma rappresentavano ancora il male minore.

L’opera viene girata immediatamente alla censura, che invia le proprie perplessità al revisore teatrale Domenico Anzelmi, il quale, semplicemente, si adegua, e le riferisce a Verdi e Somma. La censura chiedeva che si rinunciasse all’ambientazione originaria svedese, per evitare parallelismi pericolosi con quanto avvenuto di recente con l’attentato a Ferdinando II. La censura “consiglia” un’ambientazione medievale o addirittura precristiana.

L’opposizione di Verdi a questa risoluzione è netta. Non si può mettere in bocca a personaggi medievali (notoriamente rigidi) frasi che rivelano una forte appartenenza all’ambiente cortigiano, più leggero, raffinato, educato. Si raggiunge quindi un compromesso: l’ambientazione sarebbe stata spostata al 1600 (in cui le corti erano una realtà credibile), ma il titolo sarebbe stato modificato in “Una Vendetta in Domino”.

Verdi si mette subito al lavoro per i cambiamenti musicali imposti dal nuovo contesto, e nuovamente non dà notizie di sè. Proprio quando il clima comincia a farsi nuovamente molto teso, Giuseppe Verdi giunge a Napoli con la sua compagna Giuseppina Strepponi. E’ il 19 Gennaio del 1858, e la coppia viene accolta con tutti gli onori. Il Duca di Satriano (soprintendente ai teatri e agli spettacoli di Napoli) garantisce che le prove sarebbero cominciate a breve.

Ma indovinate un po’, non sarà così. La censura stoppa di nuovo il tutto, accampando nuove motivazioni: non si poteva rappresentare in maniera diretta sulla scena un regicidio né la congiura che l’aveva causato; il re non poteva commettere adulterio con la moglie di un suo servitore, sarebbe stata meglio la sorella (non è una battuta); il re non poteva essere re, doveva diventare un nobile di più basso lignaggio.

Immaginate cosa significava questa serie di modifiche per un carattere orgoglioso come quello di Giuseppe Verdi. E quanto malvolentieri si rimette all’opera, per constatare che anche le ulteriori revisioni vengono respinte al mittente dalla censura. In realtà all’interno della censura s’era aperto un dibattito tra i tre membri. In particolare uno di loro cominciò ad opporsi a quello che si configurava come un vero e proprio boicottaggio artistico.

La censura si rivolse al Ministro degli Affari Ecclesiastici e dell’Istruzione, il quale se ne lavò le mani, rimandando la questione alle decisioni del Direttore del Ministero di Polizia, il quale se ne contro-lavò le mani, rimettendo la decisione alla posizione di maggioranza già espressa dai tre membri della censura. L’opera, così com’era, non poteva quindi essere accettata.

Somma rimette mani al libretto, e lo fa in maniera radicale. L’ambientazione muta nel 300 fiorentino, i versi modificati risultano essere 297 su 884, il titolo si trasforma in Adelia degli Adimari. Il librettista consegna l’ennesimo rifacimento a Verdi, il quale, esasperato, sbotta, e il 25 Febbraio 1858 strappa il contratto col Teatro San Carlo, considerando le condizioni pattuite inizialmente del tutto disattese.

Più avanti nel tempo, ripensando a quei mesi infiniti, dirà: “Un maestro che rispetti l’arte sua e se stesso, non poteva né doveva disonorarsi accettando per subbietto di una musica scritta sopra ben altro piano, codeste stranezze che manomettono i più ovvi principi della drammatica e vituperano la coscienza dell’artista”.

Non si trattò di una rottura definitiva col Teatro San Carlo, nel quale qualche mese dopo, per la modica cifra di 1000 ducati, fece rappresentare il suo Simon Boccanegra, rimaneggiato in alcuni punti. Ma che ne fu dell’Adelia degli Adimari? Tornò ad essere Un Ballo in Maschera, e fu mandata in scena a Roma, dove la censura si rivelò più tollerante alle ragioni dell’arte.