Succede spesso che sulla via per Damasco si possa restare folgorati. A Luigi Di Maio è accaduto nel 2018 e la via non era quella per la capitale siriana, così come raccontato nei vangeli, ma quella per Palazzo Chigi.
Era un altro Di Maio quello dei Vaffaday, era un altro Di Maio quello nel ruolo di vice premier e ministro del Lavoro, è un altro Di Maio quello diventato ministro degli Esteri. Da sabato ‘l’astro nascente’ di Pomigliano d’Arco sarà ricordato anche come uno dei principali tessitori della trama politica che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale.
Alle aperture alla Russia, al feeling con i gilet gialli e all’asse con la Cina, Di Maio ha sostituito una linea europeista e atlantista. Dagli uffici della Farnesina il leader del Movimento 5 Stelle è stato in grado di diventare un vero uomo delle istituzioni rinnegando le uscite populiste e sovraniste del passato. In questo radicale cambiamento avrà avuto più peso il ruolo svolto o la ‘comodità’ della poltrona sulla quale Di Maio è seduto?
Difficile rispondere, di solito la verità è nel mezzo. Ma c’è una certezza: Di Maio ha studiato. Il ministro degli Esteri sta stupendo i più scettici e gli avversari più incalliti. Luigino, sarà stato anche il bibitaro di uno stadio ma ad oggi è potenzialmente uno dei leader principali della politica italiana nonché ipotetico e futuro premier del Paese.
A farne le spese gli ‘estremisti’ del Movimento 5 Stelle e tutti i grillini ortodossi, quelli della prima ora ancorati alle sciocchezze dell”uno vale uno‘ e delle anomalie democratiche rappresentate dai giochini fatti sulla piattaforma Rousseau. A quest’ala del M5S resta solo Alessandro Di Battista. Chissà sei il Dibba, fatto fuori e che si è auto eliminato preferendo di girare il mondo e di pontificare dalla tv e dai social, un giorno tornerà in politica. Se lo farà, sarà nel ruolo di leader della fronda scissionista e massimalista dei grillini.
Ma Luigi il ‘cannibale‘ ha divorato un altro leader, eletto presidente del M5S sempre dagli iscritti al movimento su Rousseau: l’ex premier Giuseppe Conte. Quest’ultimo si è rivelato fino ad ora incapace di gestire il partito a 5 stelle. Forse proprio perché legittimato da processi che definire democratici e normali sarebbe una bestemmia. Una leadership definita soltanto da un plebiscito di commenti sui social e dai voti di una piattaforma anomala e misteriosa, difficilmente può reggere la sfida con chi ‘comanda’ una truppa di circa 300 parlamentari: Di Maio appunto.
Insomma, in politica vincono numeri e strategie. Proprio gli elementi messi in campo da Di Maio per l’elezione di Mattarella. Conte è uscito a pezzi dalle trattative per il Quirinale. Da quando è stato ‘sfrattato’ da Palazzo Chigi l’Avvocato del popolo fa fatica a capire quale sia il suo ruolo e futuro politico. Allo stesso tempo i consensi per i grillini sono in caduta libera. Chi doveva aprire il parlamento come una scatoletta di tonno si è trovato con molteplici fratture scomposte e difficili da guarire. Forse la scissione è quello che serve ed è quello che in fondo predica Di Maio.
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