“Hanno provato a seppellirci, non sapevano che eravamo semi” si legge sul murales di piazza Egizio Sandomenico a Ponticelli, quartiere della periferia orientale di Napoli, mentre di fronte a quei germogli spunta una scultura: “si chiama il “Grido dell’innocenza” racconta un residente. L’opera è infatti dedicata alla memoria di Gaetano De Cicco, Salvatore Banaglia, Domenico Guarracino e Gaetano Di Nocera, tutte vittime innocenti di camorra scomparse l’undici novembre 1989 in quella che è tristemente conosciuta come la “Strage del bar Sayonara”. Ma quella che ad oggi è una delle pagine più nere della storia recente della città spesso cade, purtroppo, nel dimenticatoio che avvolge, come un ombra, il “Grido dell’innocenza” di un intero territorio.
La Strage del bar Sayonara
Dopo 32 anni dalla strage di San Martino Napoli resta ancora nella morsa dei clan di camorra che proprio in queste ore stanno “uccidendo la città” – come ci ha ricordato solo qualche tempo fa l’arcivescovo di Napoli, Don Mimmo Battaglia – tra l’indifferenza di tanti, cittadini ed istituzioni comprese e di chi si nasconde dietro il velo dell’omertà fortificato dalla poca fiducia dei residenti nei confronti di uno Stato, qui, troppo spesso assente.
“Fino a qualche anno fa il quartiere sembrava non avesse voluto riconoscere le sue vittime”
“Il mio ricordo è un ricordo vivo attraverso le testimonianze – racconta, a VoceDiNapoli.it, Antonio Martinelli, cittadino di Ponticelli e presidente dell’Associazione culturale Renato Caccioppoli –. E’ sempre stata una ferita aperta per il quartiere che fortunatamente negli anni è riuscito ad affrontare questo nodo per ridare dignità alla memoria delle vittime. C’è stata una collaborazione collettiva”.
“Ma ad oggi – chiarisce amareggiato Martinelli tornando alla tumultuosità di queste ore elettriche – viviamo in uno stato di assedio e a Napoli Est in generale contiamo morti e contiamo bombe di stampo, quasi, terroristico. Abbiamo una speranza per il futuro ma non è quella di chi gioca a dadi. E’ una speranza fatta di impegni”.
“Le associazioni – precisa l’attivista del quartiere – fanno il loro lavoro, ovvero sensibilizzare, ma le istituzioni devono fare la propria parte. Oggi è finito il tempo dei proclami e delle parole ci vuole un “Piano Marshall” per la zona est di Napoli. Le associazioni da queste parte, a volte, fanno anche troppo, dovrebbero essere da cornice ad uno Stato presente. Abbiamo aspettative forti, non possono essere deboli”.
“Fino a qualche anno fa– ricorda Martinelli – , quando c’erano ancora i Sarno, il quartiere sembrava che non avesse voluto riconoscere le sue vittime, poi dopo c’è stato un processo di verità storica e si è data la giusta dignità, attraverso anche il lodevole lavoro di Pasquale Leone, dell’associazione “Terra di Confine” che è stato un po’ il pioniere della marcia dell’11 novembre, nata ormai almeno una decina di anni fa”. “Prima – ricorda Martinelli – . Si respirava un’altra aria, avevamo paura, una paura legittima. Io abitavo nel palazzo del suocero di Peppe Sarno, lo conoscevo di vista incrociandolo spesso nelle scale condominiali. C’era un clima di terrore, poi ci hanno liberato, ma questo vuoto camorristico non è stato mai colmato dallo Stato ed oggi è ancora più pericoloso perché c’è una camorra frammentata, come tante particelle che producono effetti più nefasti, la camorra non ha cuore però a volte ha testa, loro non hanno manco quella e gli effetti, quindi, sono ancora più pericolosi”.
La strage dimenticata sotto l’ombra del Vesuvio
Era l’undici novembre del 1989, un sabato sera qualsiasi di fine autunno. A Ponticelli, popoloso quartiere della periferia orientale di Napoli, i vicoli e i locali del centro antico sono affollati di vita. C’è chi si concede il meritato riposo dopo un’intensa settimana di lavoro o chi magari ne approfitta per chiedere “il solito” ai banconi dei bar di quartiere distogliendo, nei piaceri dell’alcol, i disagi di un intero territorio che proprio in quegli anni si è trovato a lottare a mani nude contro la sempre maggiore deindustrializzazione della zona che inizia a creare non pochi problemi occupazionali a tutti gli abitanti di Napoli Est.
Dietro le speranze tradite di generazioni di operai, e di quanti in questi territori hanno visto tristemente svanire il sogno di un riscatto sociale, resta però la gioia della vita. Quella che, nonostante i problemi personali, ti impone di goderti quell’agrodolce sabato sera di rione. Ma quella serata sarà destinata a diventare un giorno tristemente indimenticabile per tutti gli abitanti dell’area orientale.
Sono le 18,30 del pomeriggio. Tutto si consuma tra la caffetteria Luisa e la gelateria Sayonara – due locali appartenenti alla famiglia di Antonio Borrelli, noto gregario del clan camorristico Andreotti, guidato dall’omonimo boss Andrea Andreotti e a pochi passi dai giardinetti dove, in quel momento, giocano i bambini che approfittano della tiepida serata autunnale per godersi le vie del centro, prima che arrivi il gelo dell’inverno.
Ma proprio in quel frangente, mentre i giovanissimi del rione giocano nel vicino spazio verde, in lontananza si incomincia a scorgere un frastuono insensato di automobili che corrono a tutta velocità per le strade del centro antico del quartiere. Le stesse che, in pochi attimi, si ritrovano all’esterno dei due esercizi commerciali.
Intorno alle 19 due auto appaiono così davanti ai locali. Dalle autovetture spuntano le sagome di 6 uomini affiliati al clan Aprea – cartello criminale del vicino quartiere Barra che in quel momento storico gode di una forte amicizia con la famiglia Sarno.
I banditi sono tutti vistosamente su di giri in quanto sotto effetto di sostanze stupefacenti. I killer risultano talmente annebbiati dalla droga che persino Giuseppe Sarno – vedendo i sicari in lontananza mentre giungono sul luogo di ritrovo degli Andreotti – pare che chiama in disparte il fratello Ciro- ras dell’omonimo clan e mandate del raid – invitandolo a ripensarci, ma ormai il dado e tratto. Stavolta lo schiamazzo, che rompe per sempre la quiete di quel sabato sera, è quello dei fucili a canna mozza e delle pistole che fumanti incominciano a sparare all’impazzata “su qualsiasi cosa si muova” nei paraggi – come riportano gli atti dei magistrati pubblicati all’interno del libro “Le più potenti famiglie della camorra. La storia dei clan che hanno dominato la malavita italiana” di Bruno De Stefano.
Antonio Borrelli, il bersaglio scelto dal clan Sarno, nonostante tenti una disperata fuga viene repentinamente raggiunto e giustiziato all’esterno del bar, ma già da subito si percepisce che la mattanza voluta dalla neonata famiglia mafiosa di Ponticelli si è trasformata in un totale default.
Tutto si consuma in pochi attimi davanti agli occhi – ora terribilmente impietriti – dei ragazzini che giocano nei vicini giardinetti. Gli stessi che ignari si troveranno a diventare testimoni della strage di camorra più atroce di tutta la storia recente della città di Napoli.
Il bilancio della spedizione punitiva è infatti il racconto di una tragedia senza precedenti. I morti sono addirittura 6 di cui 4 di questi totalmente estranei ai fatti di camorra, mentre numerosi sono i feriti la cui unica colpa è stata quella di vivere in “un’area popolata da delinquenti sanguinari”. Tra questi vi è anche una giovanissima bambina che si trovava nei paraggi, viva forse solo per miracolo o cause fortuite. Perché la bimba – nonostante sia stata appena gambizzata – in ospedale non ci arriverà mai. Sarà infatti curata a casa “di nascosto” per omertà. Perché qui – a Ponticelli – la paura imposta negli anni precedenti dal clan Andreotti è più spaventosa persino dei colpi di proiettile. E da oggi gli abitanti della sesta municipalità si troveranno inerti a resistere ad un nuovo spietato cartello mafioso, capitanato dal carismatico boss Ciro Sarno. Così, mentre le auto dei sicari sgommano via sparendo in pochi secondi nel nulla delle stradine di periferia, i corpi dei 4 sfortunati “passanti”: Gaetano De Cicco, Domenico Guarracino, Salvatore Benaglia e Gaetano di Nocera – vittime innocenti e totalmente estranei alla cronaca nera locale – rimangono per molto tempo a terra, a pochi metri l’uno dall’altro e vicini alle vittime designate dell’agguato, ovvero Antonio Borrelli (l’obiettivo principale del raid comandato dai fratelli Sarno) e suo cugino Vincenzo Meo, entrambi volti di fiducia del boss Andrea Andreotti, detto “‘o cappott”.