Oggi Nino D’Angelo ha rilasciato una lunga intervista al Corriere della Sera. E c’è un passaggio in particolare su cui vogliamo soffermarci, anche perché rappresenta in modo emblematico – seppure in minima parte – il tormentato rapporto tra la cultura napoletana e il resto d’Italia. E’ inutile girarci intorno o fingere che non sia così: per un napoletano è complicato vedere riconosciuto, almeno nei confini del Bel Paese, il merito della grande tradizione partenopea.
Paradossalmente è più semplice trovare “giustizia” all’estero e spesso, anche se fa male ammetterlo, sono proprio le istituzioni napoletane a perpetuare lo stereotipo del nemo propheta in patria. “Al premio Tenco – confessa D’Angelo – le mie canzoni non le conoscono neanche. Andare in tv non è facile. Per anni, mi è stato più facile avere l’Olympia di Parigi, la Royal Albert Hall di Londra o il Madison Square Garden di New York, che un teatro a Napoli. Per avere il San Carlo e celebrare Sergio Bruno è dovuto arrivare Roberto De Simone che ha firmato la composizione strutturale cameristica”.
La chiosa: “Forse, per certa gente, il caschetto che ho avuto per anni ce l’ho ancora in testa”. Difficile dargli torto, basta leggere i social durante il festival di Sanremo. Troppa gente (alcuni anche in buona fede) si chiede perché anche Nino D’Angelo partecipi in qualità di concorrente alla competizione. Forse non sanno che la canzone italiana avrà per sempre un debito di riconoscenza nei confronti di quella partenopea. Ma è Napoli stessa che dovrebbe avere chiaro questo concetto.
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