Condannare a 10 anni di carcere due ragazzini vuol dire ucciderli. Il sistema penitenziario italiano non rieduca ma incattivisce
Vedremo cosa accadrà in appello. Vedremo cosa succederà considerando le vari attenuanti (probabilmente inesistenti) e la buona condotta. Di sicuro la condanna a dieci anni di reclusione per due ragazzi di appena 20 anni, ha rappresentato una sconfitta per l’intera società. Quest’ultima è finita al tappeto già mesi fa quando i due baby malviventi hanno messo in atto la violenta rapina.
Il caso è quello del rider napoletano Gianni Lanciato, picchiato e rapinato nella notte dell’1 e 2 gennaio scorsi da un branco di giovanissimi criminali. Due di questi sono maggiorenni (gli altri sono invece minori) e ieri sono stati condannati a dieci anni di carcere (sentenza arrivata in tempi record, dopo soli sette mesi).
Giusto così, chi sbaglia paga. È la legge. Eppure secondo la nostra Costituzione la pena detentiva non deve consistere in trattamenti degradanti e disumani. Anzi, il carcere dovrebbe aiutare il detenuto ad essere reinserito in società attraverso un percorso di rieducazione.
Ma questo in Italia è avvenuto raramente. Troppo spesso siamo stati abituati a leggere, pensare e guardare al carcere come un luogo infernale. Addirittura come contesto di vera macelleria umana, così come è successo lo scorso mese di aprile all’interno della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere.
Condannare a 10 anni di carcere due ragazzini vuol dire ucciderli
Di conseguenza, la domanda è lecita. La questione va posta al di là del dovere di un giudice di emettere una sentenza. Al di la degli aspetti emotivi, soggettivi e personali che hanno riguardato le persone coinvolte nei fatti (ovvero le vittime e i loro carnefici).
Ma è corretto sbattere in cella, rinchiudere dietro le sbarre, due ragazzini per quanto cattivi essi possano essere? Che speranza potranno avere, una volta varcata la soglia di un carcere, di uscirne migliori? E che prospettive possiamo avere noi quando un giorno ce li ritroveremo davanti in strada, magari più cattivi e segnati per sempre da questa orrenda esperienza?
La risposta dovrebbe darla la politica, chi si occupa di giustizia e chi è impegnato nel sociale. Ci vorrebbe un dibattito serio in proposito, privo di pregiudizi. Senza farsi trascinare dal vento del giustizialismo e del buonismo che hanno incattivito il dialogo, facendoci diventare tifosi dell’uno o dell’altro schieramento.
Per cui, se non la pensi come me sei un mio nemico. Non dimentichiamo che nel mezzo ci sono le vite delle persone, quelle di chi ha subito un torto o una violenza e quelle che sono state private della libertà e dell’opportunità di realizzare se stessi e i propri sogni. Abbiamo bisogno di giustizia non di vendetta. E chi non la pensa così si batta per introdurre la pena di morte nella nostra Costituzione.