Quarant’anni fa ci lasciava uno degli ultimi grandi commediografi italiani: Peppino De Filippo. Era infatti, il 27 gennaio 1980, quando, il terzo dei fratelli De Filippo moriva, a causa di un tumore, all’età di 76 anni.
Il creatore del personaggio “Pappagone” (presentato nella trasmissione televisiva degli anni ’60, “Scala Reale“), esordì a teatro, giovanissimo, nella compaglia del padre Vincenzo Scarpetta. Erano gli anni difficili della Grande Guerra, e Peppino, assieme ai due fratelli Eduardo e Titina, cresceva a pane e teatro, facendo tesoro di tutti gli insegnamenti appresi alla “corte” di Scarpetta e sviluppando già una propria coscienza teatrale.
Una gavetta, quella del “re dell’improvvisazione“, che lo portò, già con una certa maturità artistica, sul palco della Compagnia Teatrale “I De Filippo“, fondata insieme ai fratelli. Commedia d’esordio della compagnia fu proprio l’emblematica “Natale in casa Cupiello“, una delle opere maggiormente legate alla storia dei De Filippo, in quanto esempio inestinguibile di quella nobile ed antichissima tradizione napoletana di cui tutti abbiamo nostalgia.
Celebre diventò infatti l’interpretazione di Peppino del dispettoso “Tommasino“, figlio di Luca, un “giovine moderno” sprezzante delle tradizioni: “Io questa cometa da mettere sul presepe non la capisco proprio, a me o’ presepio nun me piace”. Peppino De Filippo, ha indossato i panni di “Tommasino” fino alla separazione dai fratelli Eduardo e Titina nel 1944, cioè a seguito del furioso e famoso litigio con Eduardo davanti a tutta la compagnia.
Peppino approda al cinema brillante con il film-esordio diretto da Fellini e Alberto Lattuada “Luci del varietà” (1951). Più tardi, nel 1962, Peppiniello interpreterà per Fellini anche un episodio di “Boccaccio ’70“, vestendo i panni del dottor Antonio, un incallito moralista fustigatore di costumi. Qui, il fratello minore di Eduardo, darà prova di incredibile interpretazione.
Ma non è l’unica prova di bravura “oltre la comicità” che Peppino riesce a dare nella sua carriera attoriale. Memorabile è infatti la sua interpretazione del “Guardiano” di Harold Pinter (versione tv di Edmo Fenoglio – 1976), in cui porterà all’apoteosi i tratti di un personaggio cinico, scaltro e subdolo riuscendo a far dimenticare per qualche momento la sua irresistibile capacità comica.
Del resto, lo stesso Peppino confidava ardentemente nella capacità di affrontare le problematiche anche più atroci della vita con un sorriso:
“Fare piangere è meno difficile che far ridere – affermava l’attore – Per questo, teatralmente parlando, preferisco il genere farsesco. Sono sicuro che il dramma della nostra vita, di solito, si nasconde nel convulso di una risata, provocata da un’azione qualsiasi che a noi è parsa comica. Sono convinto che spesso nelle lacrime di una gioia si celino quelle del dolore. Allora la tragedia nasce e la farsa, la bella farsa, si compie“.
Un altro grande capitolo della vita di Peppino De Filippo si apre con lo sposalizio artistico al Principe Antonio De Curtis (Totò), con il quale, lo scrittore dell’autobiografia “Una famiglia difficile” (pubblicato nel 1977), dimostrerà come il ruolo di “spalla” non sia riduttivo ma anzi apra un ventaglio di possibilità farsesche essenziali quanto di difficile interpretazione.
La capacità di Peppino d’inserirsi con maestria negli spazi che Totò ritagliava per lui, diede vita ad un duo perfetto di comicità popolare. Insieme, Totò e Peppino hanno dato vita a scene indimenticbili del cinema italiano, indellebili nei cuori di partenopei e non, come l’ormai mitica dettatura della lettera in “Totò, Peppino e la… malafemmina” passando per la complicità nel finto rapimento a scopo godereccio di “Totò, Peppino e i fuorilegge” (Nastro d’Argento 1957 come miglior attore protagonista) e l’esilarante duetto sul talamo matrimoniale di “Letto a tre piazze” in cui Peppino fa letteralmente da marciapiede umano al principe de Curtis.
In tempi odierni difficilmente la commedia riesce a rivestire un tale livello culturale di spessore, ed è per tale motivo necessario ricordare una figura come quella di Peppino e la sua capacità di trattare, mediante un genere apparentemente leggero, temi tragici ed importanti lasciando sempre al pubblico una morale, un insegnamento.
Significative le parole di Indro Montanelli in merito a Peppino al fine di spiegare pienamente la sua opera: “Io non sono napoletano, ma di fronte a Peppino, non so come, mi capita sempre di diventarlo“.
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