Centoventisei misure cautelari, di cui 89 in carcere, notificate nel cuore della notte contro i clan che hanno dato vita all’Alleanza di Secondigliano. Di queste, solo una non è andata a buon fine. Un dato apparentemente irrisorio ma assai rumoroso perché la destinataria è un nome pesantissimo della criminalità organizzata napoletana. Maria Licciardi è stata spesso indicata dai collaboratori di giustizia come la reggente del clan originario della Masseria Cardone a Secondigliano e fondato dal fratello Gennaro ‘a Scigna (stroncato nel ’94 da un’ernia ombelicale in carcere). Le forze dell’ordine non hanno trovato ‘a Piccerella al suo domicilio e nelle prossime ore, se non dovesse costituirsi, verrà dichiarata latitante.
L’operazione del 26 giugno, denominata Cartagena, è un prolungamento delle indagini che nel 2014 hanno già colpito duramente il clan Contini, egemone nei quartieri Vasto e Arenaccia e una delle tre cosche fondatrici dell’Alleanza di Secondigliano, insieme ai Mallardo di Giugliano e ai Licciardi. Anche in questa nuova ordinanza, le cui indagini riguardano un periodo che termina nel 2016 (in corso ci sono nuove investigazioni), l’interesse della Direzione Distrettuale Antimafia, coordinata dall’aggiunto Giuseppe Borrelli, è concentrato principalmente sull’organizzazione fondata da Edoardo Contini e sulla capacità di riuscire a inserirsi nelle attività imprenditoriali presenti sia a Napoli che in altre regioni italiane.
Nella conferenza stampa in mattinata, il procuratore Giovanni Melillo ha ribadito quello che è stato un suo monito in questi due anni alla guida della Procura partenopea, quando l’attenzione mediatica era spesso rivolta alle baby gang e alle “paranze” di camorra che si combattevano a colpi di stese e raid incendiari. Per Melillo non bisognava mai dimenticare chi agiva dietro le quinte, chi manovrava bande di ragazzini pronti a tutto pur di conquistare un pezzo di strada dove spacciare o imporre il racket. “L’Alleanza di Secondigliano ha le mani sulla città” ha ricordato oggi, riepilogando la genesi dell’organizzazione nata con la stessa mentalità dei Casalesi e del clan di Carmine Alfieri dopo la cruenta faida con la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
L’OSPEDALE – Mani sull’ospedale della Doganella, il “San Giovanni Bosco“, dove il clan faceva quello che voleva, dal mediare trattative sindacali a imporre le ditte fornitrici. “Era la loro sede sociale” ha spiegato Melillo. L’Alleanza con la complicità del personale medico (anche se, stando alle parole del procuratore, nessun operatore sanitario risulta indagato) riusciva ad alimentare una delle attività più redditizie: le truffe assicurative. Con falsi certificati medici e testimoni a pagamento, il clan è riuscito ad accrescere i suoi introiti. Tentacoli ovunque, anche in Tribunale dove c’era una talpa che informava alcuni affiliati del clan sul corso delle indagini.
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UCCIDERE SOLO IN CASI ESTREMI – Nell’Alleanza di Secondigliano ogni gruppo ha ampi margini di operatività ma c’è una gerarchia a monte. Sono stati documentati incontri al vertice del cartello mafioso, registrate logiche e ruoli attraverso i quali è stata acclarata la capacità di coordinamento di questo cartello criminale che ricorre solo in casi estremi all’omicidio, provando a risolvere i problemi con “leggi sapienti“.
PIZZO E OMERTA’ – Un altro aspetto che fotografa la forza intimidatrice è quello relativo alle estorsioni a tappeto che i commercianti erano (e probabilmente lo sono ancora) costretti a subire. Nessuno hai mai denunciato il racket all’autorità giudiziaria così come nessuno ha mai segnalato il modus operandi dell’Alleanza di Secondigliano nel ripulire denaro. “La dimensione affaristica al momento non è ancora quantificabile -ha confermato Melillo -. Il sistema di finanziamento è tanto banale quanto altamente sofisticato. Una delle tecniche è quella di finanziare imprenditori per ottenere assegni in cambio che poi venivano ceduti ad altri imprenditori creando questa sorta di vortice. Il tutto avveniva senza alcuna denuncia, nella più totale omertà”.
IL RUOLO DELLE DONNE – La maggior parte dei destinatari della misura cautelare è già ristretta in carcere per altri reati. Oltre al singolare caso di Maria Licciardi, attualmente ricercata, ci sono anche altre donne ai vertici dell’organizzazione. Dalle tre sorelle Aieta, che hanno sposato Edoardo Contini, Patrizio Bosti e Francesco Mallardo, a Rosa Di Nunno, moglie di Salvatore Botta, elemento apicale del clan di ‘o Romano.
BENI E TESORO A SANTO DOMINGO – Oltre al sequestro beni (tra auto, moto, barche, beni immobili, gioielli) pari a 130 milioni, nell’inchiesta sono coinvolti due imprenditori residenti a Santo Domingo e riconducibili ai vertici dei clan Contini e Mallardo ed altri trafficanti, in Europa, per il giro di sigarette di contrabbando.
PIZZO ANCHE SU GESTIONE MIGRANTI – “I Contini pretendevano una quota del denaro che un albergatore napoletano percepiva dalla Regione Campania per ospitare i rifugiati”. Lo ha reso noto il questore di Napoli, Alessandro Giuliano, nel corso della conferenza stampa.
AVVOCATO COINVOLTO – Nell’ordinanza firmata dal Gip Roberto D’Auria, figura anche noto penalista napoletano, avvocato di alcuni elementi apicali del clan Contini, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Per il professionista il Gip ha rigettato la richiesta di arresto formulata dalla DDA di Napoli, che poi non ha impugnato il rigetto. Nel corso della conferenza stampa il procuratore Melillo ha però smentito la presenza di avvocati e altri professionisti (medici in primis) iscritti nel registro degli indagati.
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