Prima le europee, poi le frecciatine tra Lega e grillini con lo scontro tra Di Maio e Fico. Infine, lo scatto del Premier
Sono giornate molto tese a Palazzo Chigi. Il verdetto delle ultime elezioni politiche ha ampliato le piccole fratture che da tempo stanno caratterizzando la maggioranza giallo verde. Lega e Movimento 5 Stelle (M5S) hanno pensato bene di scambiarsi frecciatine e accuse reciproche invece di rimboccarsi le maniche e operare per il bene del Paese.
Da un lato Matteo Salvini, leader del Carroccio, Vice premier e Ministro degli Interni che appare sempre più il titolare del governo. L’exploit delle urne l’ha messo in condizioni di dettare l’agenda dell’esecutivo. Così sono tornati con forza all’ordine del giorno temi come quello delle autonomie, della flat-tax e della Tav.
Argomenti per i quali il M5S è restio nel dare un’esplicito appoggio o rifiuto. Le truppe guidate da Luigi Di Maio tentennano. Il movimento della Casaleggio e associati non può permettersi di perdere altro dopo una debacle elettorale costata 6 milioni di voti.
Di conseguenza avallare la riforma delle autonomie potrebbe causare l’indebolimento dei grillini al Sud dove tuttavia sono rimasti ovunque primo partito (tranne in Abruzzo) seguiti, clamorosamente (non troppo a questo punto) proprio dalla Lega. Lo stesso discorso vale per la flat-tax (accusata di aiutare i ricchi, un paradosso per chi sbandiera la sconfitta della povertà grazie al reddito di cittadinanza) e per la Tav dove il M5S non vuol certo fare come con l’Ilva a Taranto.
Ed è così che è andato scemando il “caso Siri“, o che Gergetti ha iniziato a dare una sorta di ultimatum agli alleati di governo. Fino allo strappo interno al M5S tra Di Maio e Roberto Fico. Il Presidente della Camera, un pentastellato “ortodosso”, prima si è astenuto non votando la fiducia al Ministro del lavoro su Rousseau e poi, in occasione della festa del 2 giugno, ha lanciato diverse bordate sia alla Lega che al M5S predicandone un ritorno alle origini.
Di Maio ha prontamente risposto, segnale di un nervosismo che in questa fase sembrava appartenere tutto alla sponda grillina. Ma a quanto pare non è stato così. Il più “arrabbiato” è stato il Premier Giuseppe Conte. Quella figura così moderata, che ispira fiducia, scelta da Salvini e Di Maio per fare da garante al fatidico “contratto”, ha alzato la testa e oggi ne ha dette quattro ai suoi “compari” di governo.
Non si sa quanto la conferenza stampa di oggi sia stata concordata con i leader di Lega e M5S, sta di fatto che il ruolo di Conte ne è uscito molto rafforzato. In pratica il Primo ministro ha richiamato all’ordine i partiti che formano la maggioranza e i loro esponenti: dai capi, ai ministri fino ai parlamentari. Ha detto chiaramente, per sintetizzare: “Ora basta scaramucce e dispetti, da adesso in poi ci vogliono, unità chiarezza e lealtà. O il governo va avanti secondo un programma condiviso oppure io mi dimetto“.
Conte ha ammesso le cose buone e quelle brutte fatte dall’esecutivo da lui rappresentato. Ha usato molto il politichese, ovvero quell’arte che permette ai politici di dire tutto per non dire nulla, ma l’ha fatto bene e paradossalmente con chiarezza. Insomma, ultimatum concordato o improvvisato? E quale sarà la risposta di Salvini e Di Maio (chiesta da Conte in tempi brevi)?
Lega e M5S faranno un passo indietro? Daranno l’immagine di una politica in grado di ammettere i propri sbagli? Una politica in grado di apparire umile? Pensandoci non sarebbe una cattiva operazione, almeno da un punto di vista mediatico. Credo che il governo possa uscirne bene in termini di consenso. Ma qui entrano in gioco alcune variabili. E tutte sono riconducibili alle singole e reali aspirazioni dei leader di entrambi i partiti di governo.
L’attuale esecutivo ha i numeri e i presupposti per durare a lungo, ma è davvero questo quello che vogliono Salvini e Di Maio? Il primo ha fagocitato prima l’alleato Berlusconi soffiandogli voti, leadership e consenso. Poi è pian piano diventato forza trainante di questo governo, arrivando quasi a schiantare gli “amici” della maggioranza. Ad oggi, all’orizzonte, potrebbe esserci un possibile esecutivo di estrema destra da formare insieme alla Meloni inspiegabilmente arrivata al 6% alle ultime elezioni europee (o meglio qualche spiegazione ci sarebbe ma ne parleremo un’altra volta).
In alternativa, un futuro governo di centrodestra è sempre possibile e numericamente forte. Questo già sta accadendo in molti contesti locali del Paese. Dall’altra parte per Di Maio & Co. è giunto il momento di comprendere cosa fare da grandi. Dopo aver perso le elezioni, voti, consenso e riabilitato sia il Partito Democratico (PD) che in parte Forza Italia, è necessario che il M5S decida finalmente che politiche realizzare e in che modo.
I grillini della Casaleggio vogliono continuare ad inseguire Salvini per poi indispettirlo sotto elezioni? Già abbiamo visto che non ha funzionato. Allora non resta che una sola scelta, dipingersi come alternativa a questa destra. Una strategia che riavvicinerebbe i pentastellati al PD (per la gioia di Fico e Zingaretti e per il dolore di Renzi e Di Maio) ma che allo stesso tempo potrebbe causare la fine di questa maggioranza.
A questo punto il dilemma del M5S è il seguente: perdere le poltrone e le posizioni di potere acquisite durante l’ultimo anno per tornare al voto, giocando una partita – magari in accordo con i Dem – contro questa destra estremista (il cui risultato potrebbe essere negativo ma non scontato), o fare la stampella di Salvini e la Lega fino a quando non sarà il leader del Carroccio a staccare la spina alla maggioranza decretando la “morte” del movimento?
La risposta dovranno trovarla quelli del M5S magari consigliati dall’onnipresente Casaleggio. L’importante è che siano in grado di prevedere quello che potrà accadere e che tutto sia deciso per il bene dell’Italia (su questa capacità di previsione ho i miei dubbi). E soprattutto che queste decisioni siano poi discusse in Parlamento e con la super visione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Chiudersi in Rousseau vorrebbe infliggere gli ultimi fendenti a questa nostra democrazia da decenni in agonia.
Intanto, il primo ad aver alzato la voce è stato Conte. In pochi se lo sarebbero aspettati. In fondo questo è stato il governo della maggioranza dall’opposizione incorporata. È ovvio, al Nazareno ancora non sanno come hanno fatto a raggiungere il 20%. Un aspetto da definire preoccupante o rincuorante? Non si sa e questo, in vista delle prossime elezioni amministrative, è sicuramente un male per l’Italia.