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Gomorra 4: Antonio Gargiulo racconta il suo Saro Levante, “camorrista senza camicia”

La quarta stagione di Gomorra è entrata nel vivo, facendo record di ascolti ad ogni puntata. Con la nuova stagione, nuovi personaggi sono entrati nello scacchiere del crimine raccontato nella serie: un nuovo clan proveniente dalle campagne dell’hinterland napoletano, la famiglia Levante.

Ad un anno dalla prima intervista, VocediNapoli.it ha incontrato Antonio Gargiulo, l’attore cresciuto a Pianura, quartiere di Napoli, che interpreta Saro il primogenito del boss Gerlando Levante, e che proprio negli episodi 5 e 6, andati in onda venerdì scorso, è stato uno dei protagonisti.

Antonio, ti abbiamo lasciato a teatro, nelle atmosfere oniriche e pop della versione proposta da Massimiliano Bruno del “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare, ti ritroviamo erede del boss di una potente famiglia criminale. Raccontaci com’è andata, dai primi provini alle riprese.
Credo di aver fatto uno dei provini poco prima del nostro incontro ad ottobre 2017. Pensavo, ormai, di non essere stato preso. Poi, fra gennaio e febbraio dell’anno scorso, mentre ero in tournée con il “Sogno”, un giorno sono dovuto scendere da Torino a Napoli per fare il secondo provino, per poi risalire nella stessa giornata, in tempo per la replica serale, con la paura di non riuscire ad arrivare in tempo. Ho saputo di essere stato preso 10 giorni prima che si iniziasse a girare, ad aprile. È stato divertente interpretare questo personaggio: tutti mi vedono un po’ come un lord inglese, molto british, sempre con un approccio calmo e diplomatico, e invece il personaggio che chiedevano di proporre era un camorrista di campagna, o meglio senza camicia, com’era scritto sullo stralcio della sceneggiatura del provino. Non di quelli sempre abbronzati, con i capelli curati, che girano in Mercedes e ostentano il potere, un’immagine più urbana. Quindi, mi sono ispirato alle immagini di quei camorristi trascurati, che non sanno parlare italiano, spesso vestiti male: ricordo che al provino indossai una tuta che avevo da vent’anni e altre cose un po’ vecchiotte, per trasformarmi in un qualcosa che mi rendesse più vicino a questo genere di camorrista. Poi, col tempo, costruendo pian piano il personaggio, prima con la Comencini, poi con gli altri registi, ho potuto capire meglio cosa avessero in mente gli autori, nella fase embrionale, con quel senza camicia.

Vieni dal teatro, ma hai recitato anche per il cinema e altre fiction italiane. In cosa differisce Gomorra, rispetto alle tue esperienze precedenti?
C’è un aspetto di Gomorra che adoro e adoravo già come fan della serie: non fa sconti. Forse per convenzione o perché si pensa che determinate storie piacciano di più al pubblico, ma molto spesso in TV si tende un po’ ad alterare la realtà, soprattutto in Italia, ma anche all’estero. Anche Gomorra, certo, deve essere romanzata, perché resta un prodotto di intrattenimento, ma cerca di non fare sconti. Cerca di raccontare delle scene crude, che possono non piacere, ma se ne frega, perché sta raccontando quella realtà e quindi cerca di avvicinarvisi. Credo sia l’unica serie italiana che ho visto facendo le 5 del mattino, perché non riuscivo a smettere. Solo per qualche serie americana ho fatto lo stesso. Passare da essere fan, a far parte di un ‘giocattolo’ del genere, per me è stato bellissimo. E lavorandoci, poi, scopri perché ti piace tanto: perché è curata, i set e le location sono meravigliosi, i registi sanno indirizzarti e si dedicano agli attori, gli autori sanno scrivere, la costumista che ti veste è una professionista di serie A, che già dal vestito ti fa capire molto del personaggio. In tutto questo Gomorra è differente: c’è una qualità che secondo me è molto molto alta e non a caso viene venduta in tutto il mondo.

A giudicare da queste prime puntate, la cosa sorprendente del tuo personaggio, Saro Levante, forse è la semplicità e l’imperturbabilità delle sue azioni: lanciare una bomba a mano su un cadavere è come lavorare nella serra di famiglia. É ovviamente un’impressione parziale, visto che la serie è ancora in corso, ma era questa l’intenzione? Su quali aspetti emotivi hai dovuto lavorare maggiormente?
Si, hai colto uno degli elementi caratterizzanti del personaggio, è stato interessante lavorarci: non manifestare rabbia, rancore, ma stare lì. È una scelta ovviamente degli autori e dei registi, ma è stato molto bello provare a farne parte: sono le azioni che ci rendono feroci, di base noi siamo tranquilli. Un aspetto interessante e non immediato sul quale lavorare è stata la presenza, grossa, ingombrante, che hanno questi personaggi: sono boss, sono Re. Mi ricordo, in una scena andata in onda proprio proprio venerdì scorso, c’era un summit, e Marco (D’Amore, alla regia degli episodi 5 e 6, ndr) ci disse che non potevamo avere una camminata quotidiana, perché interpretavamo persone che stanno al capo di una piramide, decidono della vita e della morte. Sono dei Re, neri ovviamente, e hanno un peso che con noi Levante è stato portato ancora più a fondo nello sguardo, nei gesti, nelle decisioni prese: c’è un qualcosa di terreno, di forte, appunto di non quotidiano, ed è stato interessante interfacciarsi con questo.

A volte si tende a pensare che un attore passi da un personaggio all’altro con la facilità con cui si cambi d’abito. Come si esce da un personaggio di questo tipo? Soprattutto a chi come te è nato a Napoli, e con cronache simili a certe dinamiche raccontate nella serie ci è cresciuto, rimane addosso qualcosa di quel mondo?
Beh, magari un attore talentuosissimo ci riesce a passare da un personaggio all’altro così facilmente. Io no, sono un umile artigiano, ho bisogno di costruire la postura del personaggio, il modo di pensare, i suoi bisogni, i suoi obiettivi, il background, il timbro della voce: sono tutte cose che poi ti portano a disegnare un personaggio, e poi dire la battuta sarà una semplice conseguenza di tutto il lavoro fatto. E ne approfitto di questa domanda per rompere un’idea che spesso si ha: l’attore, visto come uno che ha uno straordinario talento e solo con quello riesce a fare delle cose straordinarie, come Maradona che senza allenarsi faceva cose pazzesche. È un lavoro, c’è bisogno di lavorare tanto, dietro. Se non lo fai si vede, semplicemente. Sul come se ne esce, direi meglio. Credo che questo lavoro sia catartico. Non appartengo a quella categoria di attori che si fustigano e ne escono a pezzi, non credo che interpretare un ruolo come questo sia vivere un me assassino o un me criminale: nella vita non sono né l’uno né l’altro, quindi posso concedermelo in una fiction. Cosa rimane addosso di quel mondo? Dispiacere, perché come Saviano brillantemente descrive da anni, sono un insieme di disperati. Poi, chi ha più sete di potere è più ferocia nei confronti degli altri, magari arriva al potere, ma di base sono dei disperati, che non hanno cultura, non hanno apertura, non vivono bene. In passato mi è capitato di lavorare con dei ragazzini, attraverso Arci Campania, ed era molto triste vedere dei ragazzini di 12 anni che, anche mentre giocavano a pallone, dovevano prendere a schiaffi il compagno perché non aveva passato la palla; magari era proprio il più piccolo che andava da uno più grande e gli dava uno schiaffo, e capivi che lo faceva perché apparteneva alla famiglia più potente. È triste perché per loro è quello il linguaggio. Mi mette tristezza pensare a quella realtà che, in maniera parziale, da esterno, ho vissuto da ragazzino, anche venendo, per fortuna, da una famiglia sanissima, con principi diversi da quelli raccontati a Gomorra.

Tornando al faceto, dai social network e dalle vostre interviste sembra che la famiglia Levante, intesa come gli attori che la interpretano, sia davvero molto legata e unita. Come sono stati i mesi di lavoro insieme?
È stato molto bello. Si è creata subito una bellissima intesa. Veniamo tutti dal teatro, quindi questo ci ha aiutato perché abbiamo un linguaggio simile. Fin dai primi giorni abbiamo creato un gruppo WhatsApp chiamato, naturalmente, famiglia Levante, e dopo un po’ le dinamiche create fra noi attori erano simili a quelle dei nostri personaggi. Non mi riferisco ovviamente ad azioni criminali, però, nella famiglia, come un po’ si è già visto e poi lo scoprirete, c’è il preferito della mamma, il prediletto del papà, chi invece stima più papà e cerca di averlo come esempio, c’è la figlioletta che ha un’intesa maggiore col fratello… per esempio, Claudia (Tranchese), che interpreta Grazie Levante, spesso prendeva le parti di Luciano (Giugliano) che interpreta Mickey, io e Genny (Gennaro Apicella), ovvero Saro e Ciccio Levante, a volte eravamo contro Luciano. Il tutto scherzosamente, ma si sono create delle dinamiche familiari, in maniera molto ironica, che però non so quanto inconsciamente, spesso, corrispondevano a quelle dei personaggi.

Ovviamente non ti chiedo del futuro del tuo personaggio, ma tu invece? Su cosa stai lavorando ora?
L’ intervista si è aperta con me che sono in Tournée con il Sogno, e si chiude ancora con il Sogno, perché sono ancora in giro con il Sogno di una notte di mezza estate. In realtà è la coda della tournée, a fine aprile chiuderemo in Sicilia. A maggio, poi, avrò un ruolo in un film sempre ambientato a Napoli, e, successivamente, c’è un altro progetto cinematografico che partirà in autunno, e che forse, alla lontana, potrebbe avere a che fare con Gomorra… ma credo di non poter dire più nulla a riguardo. In più, adorando l’insegnamento, continuo a lavorare al Laboratorio di Arti Sceniche di Massimiliano Bruno.

Tornando a Gomorra, l’ultima doverosa domanda: ma Ciro l’immortale, è morto davvero? Perché sai, quelle bollicine nella scena finale della terza stagione…
Guarda, non mi è stato detto gli autori, ma ho avuto un’intuizione: prima di morire, sullo yacht, credo che Ciro avesse bevuto una bibita gassata… (ovviamente, ride. ndr).