Un libro che racconta un'esperienza di sofferenza e redenzione. Una testimonianza emblematica di cosa sia il carcere in Italia
È venuto a prendermi in motorino alla stazione, la destinazione è l’associazione Ex D.O.N. (Ex Detenuti Organizzati Napoletani) che gestisce da qualche anno. Pietro Ioia ha i lineamenti del viso segnati da quella che è un’esperienza dolorosa ma anche formativa. Il carcere è un luogo che può trasformare per sempre la tua vita. Infatti, quella di Pietro è cambiata completamente. Dopo un periodo passato per strada e diversi anni trascorsi in una cella, adesso, oltre che essere un punto di riferimento per tanti ex detenuti e molte famiglie che hanno un parente in galera, ha pubblicato un libro che è diventato anche uno spettacolo teatrale. Il titolo del volume è più che simbolico: “La ‘Cella zero’ morte e rinascita di un uomo in gabbia“.
Pietro l’ha presentato lo scorso venerdì al teatro Bolivar a Napoli, per questo ho deciso di chiamarlo e di proporgli un’intervista, “Certo non ci sono problemi, vediamoci domani mattina. La facciamo presso la mia associazione così puoi vedere di cosa mi sto occupando“. E così è stato, ad accogliermi con il sorriso c’era la moglie di Pietro che prima di iniziare mi ha offerto un buon caffè. A quel punto ci siamo preparati ed abbiamo iniziato a chiacchierare. Più che fare un’intervista il mio obiettivo è stato quello di ascoltare. Guardando Pietro negli occhi ho sentito con attenzione le sue parole e la sua storia.
La Cella zero è un luogo di tortura e violenza, “una cella al piano terra che di giorno serve come smistamento, per le visite mediche e per i colloqui e poi di sera diviene luogo di tortura dove i detenuti vengono pestati“. La vicenda, dopo le denunce di Pietro e di altri detenuti che hanno avuto il coraggio di rivolgersi alla giustizia, si è arricchita di un rinvio a giudizio per 12 imputati su 23 indagati (22 agenti ed un medico). A marzo del prossimo anno inizierà il processo, una vittoria per Pietro e per chi come lui è stato testimone e vittima di tali violenze. Tuttavia lui non nutre molta fiducia in questo procedimento giudiziario: “I tempi saranno molto lunghi e c’è il rischio della prescrizione. Tuttavia, spero in un giusto giudizio“. Del resto, conoscendo i tempi della giustizia italiana, come dargli torto.
Ma come è stato possibile arrivare a questo punto? Perché le carceri sono luogo di tortura e soprattutto perché c’è un silenzio assordante intorno a questo argomento? Pietro ha le idee chiare: “È molto semplice. Negli istituti penitenziari italiani non esiste il rispetto dell’art. 27 della Costituzione. Le condizioni in cui fanno stare i detenuti e gli agenti penitenziari sono disumane. Questo crea tensione, nervosismo ed esasperazione. Tre sentimenti che possono solo causare guai e tragedie. Inoltre, perché un detenuto dovrebbe denunciare gli aguzzini che dovrà con molta probabilità re-incontrare quando farà di nuovo ingresso in quella cella? (il dato dei detenuti che una volta usciti tornano a delinquere e rientrano in galera è molto elevato ndr)”. Purtroppo la Costituzione è violata all’interno delle carceri italiane. L’art. 27 afferma che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte“.
Mi è venuto in mente quel folle di Marco Pannella che a furia di scioperi della fame e della sete, trascorrendo Natali e capodanni tra i detenuti, ha fatto emergere questo grande problema all’interno dell’opinione pubblica. Lui parlava di comunità penitenziaria, proprio perché ad essere vittime di questo malsano sistema non sono solo i detenuti ma tutti coloro che vivono il carcere: agenti penitenziari, cappellani, medici e operatori. A partire proprio dall’ultima parte dell’art 27 che parla della pena di morte. Ma cos’è l’ergastolo se non una pena capitale silente? E come si pone questa tipologia di pena proprio nei confronti del dettato costituzionale? Eppure, il Partito Radicale è l’unica realtà politica che ha fatto delle carceri una battaglia politica, “è ovvio, i detenuti non portano nè voti, nè consensi. Noi siamo lo scarto della società“.
Però la storia di Pietro ha un altro finale. Un grande attivismo sociale per i detenuti e gli ex carcerati e la pubblicazione di un libro “scritto in 4 mesi”. Lui ha autonomamente fatto in modo di rispettare il dettato dell’art. 27. Ma in quanti che escono (sempre se non decidono di togliersi la vita) da galera hanno la possibilità di lavorare e reinserirsi sul serio in società? Davvero in pochi. Eppure le carceri hanno un costo, ogni detenuto vale centinaia di euro al giorno per i contribuenti. Dunque, quanto conviene ai cittadini italiani che essi escano ed entrano dalle carceri? Quanto conviene che essi ne vengano fuori ancora più criminali di prima, perché la galera “è una vera e propria scuola del crimine, dove lo Stato non esiste“. Ma queste cose in pochi le dicono, in pochi le scrivono e in pochi le pubblicano. Così come è raro che si parli del pregiudizio che c’è nei confronti di chi è stato detenuto “è come un marchio che hai addosso e non puoi più togliere. Io stesso non ho avuto un lavoro al Nord per questo motivo. Così completamente da solo ho dovuto inventarmi questa associazione“.
L’obiettivo di Pietro adesso è quello di presentare con la Ex D.O.N. un progetto al Comune e alla Regione per trasformare gli ex detenuti in guide turistiche per proporre ai visitatori di Napoli dei tour guidati all’interno dei quartieri popolari, raccontandone la storia. Poi abbiamo parlato dei giovani, di quei ragazzini appena adolescenti che girano per la città armati e pronti a sparare ed accoltellare un proprio coetaneo. Anche su quest’argomento Pietro ha le idee chiare: “La differenza la fanno tre attori: in primis le famiglie. Ci sono genitori che non sono attenti ai propri figli e che dovrebbero stargli dietro, capire chi frequentano, perquisirli e punirli se necessario. Ho un figlio di 12 anni e non potrei mai immaginarlo armato e pronto ad accoltellare o sparare qualcuno. Poi ci sono le istituzioni che non mettono in pratica nessuna politica economico-sociale che dia a queste persone un’altra scelta. Ormai questa gente vive ghettizzata nei propri quartieri perché questi territori sono completamente isolati e abbandonati. Infine bisogna che le associazioni si organizzino meglio e con maggiore forza, magari con il supporto anche della chiesa. Il ruolo dei parroci è fondamentale“.
Infine, una battuta sulla questione della legalizzazione delle droghe leggere, un provvedimento che potrebbe avere molteplici conseguenze: “Legalizzare marijuana e hashish vorrebbe dire strappare un mercato alle mafie. Mi ricordo di Al Capone e il proibizionismo dell’alcol. Con la droga provoca la guerra tra i giovani per la conquista delle piazze di spaccio, causa la messa sul mercato di sostanze dannose, paradossalmente provoca un aumento del consumo, intasa i procedimenti giudiziari e riempie le carceri di ragazzi che con quell’ambiente non dovrebbero avere nulla a che fare“.
Abbiamo finito, inizio a prendere la mia video camera e spegnere il registratore. Resta giusto il tempo per un paio di foto insieme a Pietro ed al suo libro. Poi gli ho chiesto di vendermi una copia e di scriverci una dedica all’interno. L’ho osservato mentre ha preso la penna ed ha iniziato a scrivere, mi ha trasmesso una certa emozione. Aveva l’aria fiera, quella di una persona che nonostante tutto ha conservato la sua dignità.