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Storia dell’omicidio di Silvia Ruotolo, uccisa davanti al figlioletto. Il killer: “Dopo andai a fare un bagno”

Fu uccisa mentre tornava a casa e teneva per mano il figlioletto Francesco di 5 anni, appena uscito dall’asilo dopo la recita di fine anno. Fu uccisa sotto gli occhi dell’altra figlia di 10 anni, Alessandra (oggi assessore alle politiche giovanili del comune di Napoli), affacciata al balcone.

 

Venti anni fa, l’11 giugno del 1997, un proiettile vagante ferì mortalmente alla testa Silvia Ruotolo, 39 anni, vittima innocente di un agguato di camorra tra clan rivali avvenuto in Salita Arenella, nel quartiere Arenella.

LA FAIDA – Era l’ora di pranzo e una soffiata fece entrare in azione gli uomini del boss Giovanni Alfano, capo della Torretta e in guerra con il clan Cimmino-Caiazzo per riprendersi il controllo del Vomero e dell’area collinare della città, dove fa gola il giro d’affari dei tanti ospedali presenti. L’obiettivo dei sicari era colpire affiliati al clan rivale riunitisi a casa di Luigi Cimmino per un summit alla presenza del boss Antonio Caiazzo.

In un’intervista rilasciata nel 2011 a Repubblica, Rosario Privato, uno dei killer entrati in azione, pentitosi dopo l’arresto avvenuto in Calabria un mese dopo il delitto, racconta a Elio Scribani la storia di un agguato di camorra dove perse la vita Silvia Ruotolo e venne ferito, durante la fuga dei killer, Riccardo Valle, studente universitario.

L’AGGUATO – Killer di fiducia del boss Alfano, Rosario Privato racconta gli attimi che hanno preceduto la tragedia. Il commando partì dalla Torretta dopo la telefonata che segnalò il summit in corso. “Eravamo in cinque su due macchine e avevamo sei pistole“. Una volta arrivati a Salita Arenella vengono esplosi oltre 30 proiettili in due diverse occasioni. Nel primo agguato, dove morì Salvatore Raimondi e venne ferito Luigi Filippini, elementi affiliati al clan rivale, una pallottola di piombo “che era entrato e uscita dalla spalla di uno dei due sulla Vespa” ferì mortalmente Silvia Ruotolo.

Attimi concitati dove il killer racconta di non essersi reso conto di nulla, se non dei due a bordo di una Vespa che dovevano essere uccisi perché “pensai che ci avessero scoperti“, aggiungendo che la notizia della morte di una donna innocente l’apprese successivamente dal telegiornale.

Il killer pentito Rosario Privato

IL BAGNO A MARE –  “Dopo l’omicidio – racconta Privato -, quando sono sceso alla Torretta, sono andato al mare per togliere la polvere da sparo dalle mani”.  Braccio destro del boss Alfano, Privato durante la sua carriera criminale ha confessato 40 omicidi. Come killer veniva pagato “9-10 milioni (di lire, ndr) al mese”, poi quando divenne braccio destro del boss riusciva a portare a casa “40-50 milioni al mese“.

 

Alessandra Clemente insieme al papà

LE CONDANNE – Per l’omicidio di Silvia Ruotolo sono stati condannati all’ergastolo il boss Giovanni Alfano, Vincenzo Cacace, Mario Cerbone, Raffaele Rescigno (l’autista del commando) e Rosario Privato, divenuto poi collaboratore di giustizia. Gli imputati sono stati condannati anche al risarcimento dei danni alle parti civili. La Corte ha riconosciuto una provvisionale di 500 milioni al marito di Silvia Ruotolo, Lorenzo Clemente, e di 100 milioni allo studente universitario Riccardo Valle, ferito non gravemente durante la fuga dei killer.

“PENTITO DOPO AVER VISTO MARITO TV” – Privato spiega che la decisione di iniziare a collaborare non è stata presa “per la galera e per la prospettiva di non uscire più, l’ho fatto per il marito di Silvia Ruotolo. Vederlo in tv mi ha portato a decidere di cambiare vita”. Privato è stato condannato a 42 anni di reclusione, 26 per l’omicidio di Silvia Ruotolo.

LA VENDETTA TRASVERSALE – Un’altra vittima innocente arrivò un mese e mezzo dopo l’omicidio di Silvia Ruotolo. Per le sue rivelazioni, Rosario Privato venne punito dal clan con l’uccisione dello zio Giovanni Arpa, un pensionato di 69 anni rapito a fine agosto al Rione Alto, sgozzato e poi impiccato in un casolare abbandonato alla periferia nord della città.

L’OMERTA’ CIVILE – Quel 11 giugno 1997 viene anche ricordato per le enormi difficoltà che incontrarono gli inquirenti per arrivare ai killer. In un’intervista di qualche giorno fa sempre a Repubblica, l’ex magistrato Carlo Visconti ritorna sull’appello che fece all’epoca per smuovere le coscienze e invitare le tante persone che erano in strada quel giorno a raccontare quello che avevano visto.

Decine di testimoni avevano assistito alla sparatoria perché intrappolati nelle auto bloccate in quella stretta e lunga stradina dell’Arenella. Molti avevano visto tutto. Quantomeno lo svolgersi dei fatti. Nessuno si faceva avanti per aiutarmi a ricostruire l’accaduto. Feci un appello sui quotidiani di Napoli, ma nulla, nessuno parlava. Ed allora decisi di gettare un sasso nello stagno per cercare di smuovere le coscienze. In un’intervista parlai dell’ “omertà civile” dei napoletani che assistevano impassibili a delitti spaventosi senza collaborare con gli inquirenti. Supplicai dicendo che non mi occorrevano riconoscimenti di persona, volevo solo ricostruire i fatti. Niente. Anzi il sindaco di allora, il cardinale di allora, mi risposero con interviste che mi bacchettavano severamente, per essermi permesso di definire omertosi i cittadini, sia pure nell’accezione di cui parlavo prima.

 

Ciro Cuozzo

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