Una donna, abile, risoluta, incontenibile, si distinse nei burrascosi avvenimenti che nel 1860 portarono Garibaldi a marciare indisturbato su Napoli, entrando in città da trionfatore non già dopo una marcia gloriosa con esercito armato al seguito, ma dopo aver affrontato un comodissimo viaggio in treno. Quella donna ha un nome, Marianna De Crescenzo, un soprannome, La Sangiovannara, un’immagine. L’unica, fornita dal pittore Saverio Altamura durante una visita alla sua osteria.
Quando Garibaldi veniva accolto a Napoli tra mille onori e festeggiamenti, Marianna La Sangiovannara era lì, e si distingueva per il particolare calore con cui inneggiava all’eroe dei due mondi, insieme a Liborio Romano, il Ministro degli Interni che aveva reso pacifico un ingresso che altrimenti sarebbe risultato ben più cruento. Le modalità che Liborio Romano scelse per evitare un inutile spargimento di sangue, però, furono quantomeno discutibili.
Si affidò alla camorra, di cui Marianna era un’esponente di spicco. La camorra, al tempo, era nelle mani dello spietato boss Salvatore De Crescenzo, detto Tore ‘e Crescienzo. A lui venne affidato il comando della Guardia Cittadina, che avrebbe di fatto espiantato la polizia borbonica e garantito l’ordine pubblico in occasione dei delicati cambiamenti politici in corso.
Il cognome De Crescenzo, come avrete già notato, è il medesimo. Ciò porta a pensare tra Marianna e Salvatore ci potesse essere un qualche grado di parentela. Ed in effetti è così. Ma le versioni in proposito sono diverse. Ci sono documenti che li vogliono fratello e sorella, altri li indicano come cugini, altri ancora, più improbabili, marito e moglie.
La versione oggi più credibile è quella per cui Salvatore de Crescenzo e Marianna la Sangiovannara fossero cugini. Uniti quindi nel malaffare? A giudicare da quegli stralci di biografia che ci son noti di Marianna, sembrerebbe proprio di no. Marianna era stata la moglie di un soldato borbonico, prima che questi perdesse la vita. Si era risposata successivamente con un ragazzo che l’aiutò a gestire l’osteria di cui era proprietaria.
E cosa c’è di losco in tutto questo? Vi basti sapere che La Sangiovannara era sotto osservazione perenne della polizia borbonica, e quando si decise di prelevarla dall’osteria per rinchiuderla in cella, Marianna fece letteralmente “cadere” i gendarmi in una trappola: una botola nascosta all’interno della quale finirono gli ignari poliziotti, mentre lei se la dava a gambe.
Anche Marianna, quindi, come Salvatore, non era esattamente uno stinco di santo. Nè mai avrebbe voluto esserlo, vista la risolutezza con cui portava avanti le sue attività illecite nel rione Pignasecca. La Sangiovannara era infatti all’epoca un soprannome che destava timore e rispetto. Diventò un marchio di fabbrica, utilizzato persino nei documenti ufficiali.
In un decreto garibaldino datato 26 Ottobre 1860 Marianna è chiamata La Sangiovannara, a differenza di tutte le altre persone citate, per le quali venivano utilizzati regolarmente nome e cognome. Il decreto in questione la vede citata a proposito di una rendita mensile di 12 ducati che per tre anni le sarebbe stata corrisposta come compenso per lo straordinario sostegno liberale dimostrato nei fatti del 1860.
Dodici ducati mensili significava circa 2600 euro. Furono corrisposti a lei e a tutte le altre patriottiche camorriste impegnate nel mantenimento dell’ordine pubblico a Napoli in occasione dell’arrivo di Garibaldi nel 1860, nei tumulti precedenti al suo arrivo, che dispersero di fatto la polizia borbonica di Napoli e ammansirono la frangia lealista della popolazione. Insomma, 2600 al mese, per essersi data piuttosto da fare per la causa dell’Unità d’Italia.
Ritornando alla nostra questione. Perchè Marianna fu l’unica a non essere identificata in quel decreto con nome e cognome? Semplice. Quel cognome, De Crescenzo, a Napoli, nel 1860, significava esclusivamente Salvatore. Tore ‘e Crescienzo, il boss indiscusso e inamovibile della camorra napoletana, nonché probabile cugino di Marianna.
Un’altra De Crescenzo, talaltro ai vertici della piramide dell’organizzazione, significava attentare all’unicità del boss. Per questa ragione Marianna fu sempre chiamata con il suo soprannome, La Sangiovannara, e mai Marianna De Crescenzo. Per sapere da dove derivi il termine La Sangiovannara, basterà guardare al luogo di nascita di Marianna: San Giovanni a Teduccio.
Abbiamo citato il decreto con il quale Marianna e altre camorriste vennero “risarcite” dei loro sforzi patriottici con 12 ducati al mese. Ma alla Sangiovannara, ed esclusivamente a lei, fu conferito un altro onore speciale. Storico, osiamo dire. Fu la prima donna ad esprimere la propria preferenza in una votazione ufficiale di Stato.
Era l’ottobre del 1860, quando i cittadini maschi del popolo furono chiamati ad esprimersi circa la possibilità di annettere o meno il Regno di Sardegna. A Marianna fu concesso il privilegio di votare, unica donna in Italia, per gli ormai noti “meriti patriottici”. Il suo “si” fu festeggiato da una folla gioiosa, armata stavolta di sole tricchebballacche.
Sulla Sangiovannara si espressero i suoi detrattori e i suoi ammiratori, in piccoli affreschi dipinti a parole, che molto dicono del personaggio. Cominciamo dai detrattori, ovviamente scelti tra le fila dei borbonici, traditi da un popolo (quello femminile) che fino a pochi mesi prima era stato sempre dalla loro parte.
De Sivo, descrivendo il proprio arresto: “mi condussero alla prefettura. Trovai schierati centinaia di camorristi maschi e femmine per isbranarmi; pur la Sangiovannara mi puntò la pistola alla vita fino alla prigione”. Buttà, valoroso combattente borbonico: “dopo tre giorni che si era proclamata la costituzione, vi furono due assembramenti di camorristi, di lenoni, di monelli e di cattive donne, tra le altre la De Crescenzo”.
Monnier, invece, la descrive sotto tutt’altra ottica, quella liberale: “Senza essere affiliata alla società, ne conosceva tutti i membri e li riuniva in casa sua in conciliaboli assai pericolosi. Essa avea dichiarata la guerra alla polizia, accoglieva i plebei sospetti, nascondeva i disertori, faceva del rumore e del bene per la buona causa. D’altra parte, checché possa dirsi, questa agitazione popolare era utile, perché spaventava il governo”.