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Ferdinando Russo, l’altro poeta napoletano

La poesia napoletana ha sempre suscitato grande ammirazione anche da parte dei poeti “nazionali” più blasonati. Ma c’è un autore che, pur essendo costantemente sulla cresta dell’onda grazie alle canzoni che hanno reso immortali i suoi versi, sta riemergendo ultimamente dalle nebbie nelle quali il suo nome s’era eclissato. Stiamo parlando di Ferdinando Russo, personaggio amatissimo da donne e popolo, odiato dalle istituzioni.

La sua carriera letteraria cominciò, paradossalmente, ma neanche tanto, abbandonando gli studi. Fu assunto come correttore di bozze alla Gazzetta di Napoli, e vivendo dall’interno il mondo del giornalismo, se ne invaghì a tal punto da voler mettersi in proprio, fondando un periodico, il Prometeo, che non ebbe però la fortuna che l’entusiasmo di Ferdinando Russo si sarebbe aspettata.

Il Prometeo chiuse, ma la passione per il giornalismo no. Ferdinando Russo non si limitava a riferire notizie di cui veniva informato da terzi. Il suo giornalismo era d’assalto. I suoi non erano articoli, erano inchieste. E molte di queste riguardavano le condizioni d’indigenza di molta parte del popolo napoletano, come anche la situazione delle prostitute, la longa manus della camorra su molte criticità di Napoli.

I suoi articoli gli procurarono non pochi grattacapi, in special modo da parte delle istituzioni politiche e giudiziarie, perchè il Russo non risparmiava critiche e denunce nei confronti di nessuno, che si trattasse di malavitosi o di persone incaricate di amministrare la cosa pubblica. Le istituzioni venivano spesso additate come le principali responsabili dello status quo della città, e dei suoi abitanti meno fortunati.

L’attenzione di Ferdinando Russo per le classi meno agiate di Napoli fu anche alla base dello scontro epico con uno dei suoi più acerrimi rivali letterari: Salvatore di Giacomo. Secondo Ferdinando, la natura della poesia di Di Giacomo era lontanissima dalla vera essenza del popolo napoletano, di cui Ferdinando era noto interprete, e ricambiato estimatore.

Salvatore di Giacomo, dal canto suo, non risparmiava il rivale da stoccate, affondi, e sciabolate che cominciavano dalla letteratura e finivano per tracimare nel giochetto che va tanto di moda tra i politici di oggi: gli attacchi personali. E Ferdinando, bontà sua, di materiale d’accusa ne metteva abbondantemente a disposizione ogni giorno, visto il suo proverbiale saltellare da una donna all’altra.

Nessuno dei due poeti, in ogni caso, si fece mai condizionare dalle critiche. Ferdinando continuò per la sua strada di denuncia, anche nei testi letterari, oltre ai trafiletti giornalistici. L’atavica povertà del popolo napoletano, la nostalgia del passato borbonico, lo scetticismo verso le nuove istituzioni “italiane”, ma anche la tenerezza e il dolore nelle situazioni di ogni giorno, i sentimenti privati, le dimensioni dell’amore e dell’eros, in forme anche più che esplicite.

Il tutto condito da una vita piena zeppa di aneddoti di ogni tipo. La maggior parte dei quali legati alle sue poesie, la cui storia arricchiva quella della sua vita. E’ il caso, ad esempio, di “Scetate”. 1891. Giosuè Carducci si reca a Napoli in qualità di presidente di commissione per alcuni esami. Porta con sé la scrittrice inglese Annie Vivanti. In quell’occasione incontra Ferdinando Russo, di cui aveva già avuto modo di ammirare la poesia.

Nel fine serata Ferdinando Russo invita Carducci e la Vivanti nella trattoria Pallino. L’atmosfera era particolarmente coinvolgente, e quando Carducci chiede al Russo di recitare una poesia, il poeta napoletano optò per Scetate, i cui versi dedicò alla bellezza della Vivanti. Lei, lusingata, alla fine della declamazione, scoppiò in lacrime dalla commozione.

Sentendosi in debito di riconoscenza, la Vivanti andò oltre, e ricambiò Ferdinando esaltandone i tratti del volto di fronte ad un Giosuè Carducci il quale, pur contratto in una smorfia di irritazione, non fece una piega. Ma a Napoli non mise mai più piede. La gelosia evidentemente gli impedì di esprimere ancora il proprio apprezzamento nei confronti delle doti poetiche del collega napoletano.

L’episodio cominciò a serpeggiare tra le voci di Napoli, accrescendo in città la reputazione di Ferdinando Russo. Ciò che però gli tributò vere e proprie ovazioni avvenne poche settimane più tardi, quando, nello stesso anno, tale Capitano Spelterini, detto “‘O Francese” a causa del suo accento simil-francofono, giunse in quel di Napoli.

Aveva approntato un’attrazione che a suo parere avrebbe riscosso un successo clamoroso: il pallone aerostatico. Per la modica cifra di 50 centesimi l’avrebbe fatto solo guardare, per la meno modica cifra di 20 lire l’avrebbe fatto provare ai temerari che desideravano sorvolare il golfo per goderne il panorama dall’alto.

20 lire, ai tempi, era un patrimonio non indifferente. Si sorprese solo lui nel constatare che nemmeno un napoletano gli chiese di poter effettuare l’incredibile tour panoramico aereo del golfo di Napoli. Stizzito da tanta indifferenza, comprò una pagina sul “Mattino”, per rimproverare al popolo napoletano la sua pusillanimità di fondo.

Ferdinando Russo lesse quell’articolo, e inferocito rispose per le rime al Capitano Spelterini, annunciando che la domenica seguente avrebbe dimostrato che il popolo napoletano non ha paura di sollevare i piedi dal suolo, spendendo quelle 20 lire che tanto facevano gola al Capitano. Accolse la sfida, insomma, e la città ne fece immediatamente il proprio eroe.

Nei giorni che separarono la risposta del Russo dalla domenica, il popolo napoletano portò simbolicamente in trionfo il suo campione senza paura. Donne e uomini, soprattutto donne, fermavano Ferdinando per strada augurandogli buona sorte. Il gran giorno giunse. Il Mattino dedicò un articolo all’avvenimento, dalla penna della famosissima Matilde Serao.

Tra folla festante, intellettuali, e autorità, Ferdinando Russo percorse il tragitto fino all’aerostato, salutò cavallerescamente il Capitano Spelterini, ed insieme salirono sul pallone aerostatico, finché non sparirono dagli sguardi di chi li seguiva col naso all’insù. Tornò a casa solo a tarda sera, dopo essere atterrato in una zona impervia. Per l’occasione compose il poemetto N paravise.

Mamma mia che vò sapè, un altro componimento che acquisì grandissima fama dopo essere stato musicato da Emanuele Nutile, nacque invece da una vicenda privata. Era sul posto di lavoro, Ferdinando, quando un amico gli chiese spiegazioni riguardo il suo ostinato mutismo e il suo umore nero.

Il poeta rispose come meglio sapeva fare. Prese un foglietto e vi appuntò sopra dei versi improvvisati. Erano i versi di Mamma mia che vò sapè, nei quali parla di una brutta delusione d’amore, situazione che Ferdinando stava vivendo tra un attacco di nostalgia e pulsioni costrette al freno.