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Quando Hans Christian Andersen si innamorò di Napoli preferendola a Roma

Basterebbero queste parole di Hans Christian Andersen per descrivere l’innamoramento dello scrittore alla vista del capoluogo campano: “Tra i monti viola dorme, Napoli bianco vestita, Ischia sul mare fluttua. Come nube purpurea; La neve tra i crepacci. Sta come studio candido di cigni; Il nero Vesuvio leva il capo, cinto di rossi riccioli.” Per infatuarsi della città azzurra basterebbe davvero un attimo. Sarebbe sufficiente distruggere i confini della propria geografia personale che, spesse volte, viene strutturata a partire da pregiudizi ingiusti e gratuiti così da mettere a tacere i confini della propria anima creando una mappa del cuore che poco ha a che vedere con quella mentale.

Per innamorarsi di Napoli basterebbe intraprendere un viaggio, uno di quelli immaginari o reali proprio come usava fare Hans Christian Andersen lasciandosi guidare dalla bussola della fantasia in modo tale da riuscire a scrivere la propria fiaba personale che abbia come protagonista però una delle città più belle e contraddittorie d’Italia. Lo scrittore danese ci è riuscito, si è lasciato incantare da Napoli, da Pompei, da Ercolano e da Salerno. Era la primavera del 1834 quando il genio danese metteva per la prima volta piede nel capoluogo campano. Da allora sono trascorsi più di tre secoli eppure Napoli continua, ancora oggi, a custodire con gelosia le orme del poeta danese.

Tanto tempo fa ( è proprio il caso di dirlo ), nella zona a sud di via Toledo, nello specifico tra via Ferdinando del Carretto e via dei Fiorentini, c’era un albergo chiamato dell’Aquila d’oro. Fu proprio questa struttura ad ospitare, tra il 1840 e il 1841, il famoso scrittore e poeta danese Hans Christian Andersen. L’uomo non riuscì a resistere al fascino del Grand Tour, un viaggio lungo molto in voga tra i giovani aristocratici intorno al XVII secolo che partivano alla scoperta dell’Europa continentale. L’esplorazione del Vecchio Continente poteva durare dai pochi mesi ai svariati anni, e Andersen decise di prendervi parte, di lasciare la sua terra natia per scoprire Napoli e i suoi dintorni. Non ne rimase deluso. Anzi.

Lo scrittore, infatti, si innamorò a prima vista del capoluogo campano tanto da trascorrere le sue giornate a zonzo per la città. Riusciva a rientrare dalle sue peregrinazioni solo a notte fonde rifugiandosi in una locanda gestita da una signora tedesca dove si pagavano due carlini per il letto e tre per un lauto pasto. Fu un viaggio felice quello di Hans Christian Andersen in Italia. Eppure quando, nel 1834, il poeta mise piede in terra partenopea, il suo umore era cupo, stravolto. Il dolore per la morte della madre e le aspre critiche ricevute per l’opera teatrale “Agnete e il Tritone” gli avevano spento l’anima. Napoli lo riportò a vita nuova regalandogli uno spirito nuovo, più combattivo, nato dal fuoco e dalla lava del Vesuvio.

Fu proprio il ribollente vulcano, infatti, ad attrarre maggiormente l’attenzione di Andersen e come dargli torto? La salita verso il Vesuvio si consumò in groppa ad un asino. Tutt’intorno lo scrittore danese era circondato da uno scenario irreale, favolistico, per non dire spettrale. Accompagnato dai vapori sulfurei,  Hans Christian costeggiò un fiume di fuoco mentre l’abisso di fiamme reclamava vendetta. “Dal cratere saliva un rombo come quando si leva da un bosco un grosso stormo di uccelli” con queste parole Andersen descrisse l’incanto dell’esperienza lasciandone traccia ai posteri nel suo romanzo ‘L’improvvisatore‘ del 1835. Non mancheranno visite nemmeno a Capri, Pompei, Paestum e persino nei Campi Flegrei.

Ogni luogo che il poeta danese aveva avuto la fortuna di calpestare, ebbe lo strano potere di ipnotizzarlo, di stregarlo, di donargli un nuovo e più ampio respiro. A Paestum, ad esempio, Andersen venne rapito dalla bellezza di “una povera fanciulla cieca, vestita di stracci“. Napoli, e persino la voce del mezzosoprano Maria Malibran, ogni dettaglio del viaggio nella città di Pathenope contribuì a fargli raggiungere il riconoscimento letterario tanto inseguito. Il capoluogo campano condusse lo scrittore danese al successo tenendolo sempre per mano. E Andersen decise di ringraziare Napoli tornandovi ancora, questa volta per una breve tappa. Nel 1841. La città però era stretta dalla morsa del gelo “Il Vesuvio e i monti circostanti erano coperti di neve, io avevo la febbre nel sangue, soffrivo nell’anima e nel corpo“.

Fortunatamente il poeta danese non si arrese a questa gelida esperienza e, cinque anni dopo, durante la Pasqua del 1846, mise di nuovo piede in quel di Napoli. Questa volta ad incantarlo fu Santa Lucia: “Erano splendide serate, notti di luna, era come se il cielo fosse stato alzato e le stelle si fossero allontanate” ma anche Capri, Ischia, e la processione della Madonna dell’Arco riuscirono in qualche modo a scuoterlo. Il legame con Napoli fu però sempre vivo e presente nel cuore del poeta a tal punto da spingerlo a scrivere queste parole, nel corso del suo soggiorno a Roma: “Dio mio che città calma e spenta in confronto a Napoli“. Leggenda vuole poi che Andersen suggellasse in una frase l’impronta durevole del rapporto d’amore stretto con il capoluogo campano sin dal primo sguardo. “Quando sarò morto, tornerò a Napoli a fare il fantasma perchè qui la notte è indicibilmente bella“.