Se oggi possiamo ammirare il Toro Farnese nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, è “merito” dei Borbone, che hanno trasferito gli infiniti tesori della Collezione Farnese da Roma a Napoli. L’appropriazione, contestata ma nient’affatto indebita, avvenne ad opera di Ferdinando IV, il quale, figlio di Carlo III, a sua volta figlio di Filippo V di Spagna ed Elisabetta Farnese (ultima discendente dei Farnese), ereditò l’immenso patrimonio artistico in dote a sua nonna.
Con 24 tonnellate di marmo bianco, il Toro Farnese è la statua più grande pervenutaci dall’antichità. Si tratta di un gruppo statuario scolpito a tutto tondo, con delle eccezioni in bassorilievo, dislocate intorno ad una base corposa. La statua è alta quasi quattro metri, larga tre e lunga altrettanto. Misure mastodontiche che rendono la rappresentazione del Supplizio di Dirce (questo il nome ed il soggetto dell’opera) ancora più spettacolare.
IL MITO
Il supplizio di Dirce fa parte del mito di Antiope, narrato da Euripide nel 410 a.C. Antiope viene sedotta da Giove, come accadeva più o meno a tutte le belle ragazze del pianeta. La gravidanza che proviene da quell’incontro amoroso manda su tutte le furie il padre di Antiope, il quale, furioso per la vergogna procurata dalla figlia al suo buon nome, la caccia.
Antiope partorisce due gemelli, Anfione e Zeto. Questi vengono presi da un pastore, che li cresce come figli, mentre Antiope si rifugia presso Epopeo, re di Sicione. Il re Nitteo, che non aveva digerito né la gravidanza della figlia, né la sua fuga, supplica suo fratello Lico, re di Tebe, di riprendere Antiope e punirla per la sua “leggerezza di costumi”.
Lico non ci pensa due volte. Invade Sicione, uccide Epopeo, e prende Antiope come schiava. La moglie di Lico si accanisce su di lei in maniera particolare, perchè ne invidia la bellezza. Dopo circa 20 anni Giove si ricorda di Antiope, e notandone il disagio, la aiuta a fuggire. Antiope corre fino al Monte Citerone, dove fervono i preparativi per la festa di Dioniso.
Lì incontra due ragazzi, e li supplica di aiutarla, ma sopraggiunge in quel momento Dirce, che ordina loro di ucciderla. I due ragazzi erano in realtà Anfione e Zeto. Il pastore che li aveva cresciuti, costretto dal precipitare degli eventi, rivela loro la verità: Antiope è la loro madre. Inutile dirlo, Dirce fa una brutta fine. Viene legata ad un toro, che la trascina via fino alla morte.
LE ORIGINI DEL TORO FARNESE
Fin qui il mito. Ma questa statua, che lo rappresenta in cinque dei suoi personaggi (il toro, Dirce, Anfione, Zeto, e Antiope), ha una storia altrettanto antica. Plinio il Vecchio ci dice che la statua fu commissionata nel 160 a.C. a Pergamo, in due versioni: una destinata a rimanere a Pergamo, e l’altra per l’isola di Rodi. Quella di Rodi, creata da Apollonio e Taurisco, sarebbe stata rubata dai romani nel 39 a.C., e sistemata nell’Atrium Libertatis, a Roma.
Per un lungo periodo si ritenne il Toro Farnese fosse la statua di cui parlava Plinio. Ma molto più probabilmente si tratta di una copia romana del 210 d.C. circa, destinata ai bagni di Caracalla. Prova ne sarebbero dei personaggi “posticci” rispetto all’originale descritto da Plinio: una piccola Antiope con lancia, sullo sfondo del gruppo principale, il fanciullo con la corona di pino, e gli animali.
IL RITROVAMENTO DEL TORO FARNESE
Nel 1545-1546 viene ritrovata nelle Terme di Caracalla questa statua monumentale in pessime condizioni, insieme a decine d’altre di dimensioni poco inferiori. Ad ordinare gli scavi in quella zona era stato Papa Paolo III, discendente dei Farnese, il quale, incredulo, fa trasportare il tutto nel secondo cortile verso via Giulia, di Palazzo Farnese.
La prima testimonianza scritta di questo ritrovamento risale al 1566. Si tratta di un antico inventario nel quale il complesso scultoreo prende il nome di “Il monte co’l toro con quattro figure grandi”, da cui deriverà uno dei nomi attribuitigli in seguito, “La montagna di marmo”. La genericità della definizione la dice lunga sull’ardua identificazione del mito di riferimento.
Si formularono inizialmente diverse ipotesi, rivelatesi successivamente errate. Si pensò infatti al mito delle Fatiche di Ercole, e precisamente quella del Toro Cretese. Si pensò anche quel toro potesse essere il famoso Toro di Maratona, che Medea aveva chiesto a Teseo di catturare, nel tentativo di sbarazzarsi di un pretendente al trono.
RESTAURO DEL TORO FARNESE
A sbrogliare la vicenda ci pensarono Guglielmo della Porta, e il suo allievo Giovanni Battista dei Bianchi, che formularono l’ipotesi esatta: si trattava del Supplizio di Dirce. Una volta individuato il soggetto dell’opera, i due poterono procedere ad un mirabile restauro. Siamo intorno al 1570. E’ passato un trentennio dall’incredibile scoperta.
Testimonianza di questo restauro storico è un’incisione del 1579 di Roberto da Borgo di Sansepolcro, il quale individua in G. B. Bianchi il restauratore (dato che si ritrova nell’archivio di Palazzo Farnese del 1767). Ma c’è chi ritiene più verisimile l’ipotesi che il restauratore fosse G. B. Casignola, o G. B. della Porta, o ancora G. B. Biondi. Senza dubbio, un G. B.
IL TORO FARNESE PASSA AI BORBONI
Il clamore che la statua fu in grado di sollevare, una volta riportata all’antico splendore, fu vasto. Se ne parlava in ogni regno, la si riproduceva con ogni materiale (bronzo e porcellana su tutti). Luigi XIV, il Re Sole, Borbone e sovrano di Francia, tentò addirittura di acquistarlo, ricevendo un no secco da parte dei Farnese, proprietari.
Andò meglio a Ferdinando IV, un altro Borbone, che, nipote di Filippo V ed Elisabetta Farnese, acquisì legalmente l’intera collezione di proprietà della nonna, decidendo nel 1786 di portare parte di quel tesoro a Napoli, contravvenendo alle volontà di Papa Paolo III, il quale aveva il disposto due secoli addietro che quel patrimonio artistico rimanesse a Roma.
Ferdinando ordinò il Toro Farnese fosse collocato nel “Real Passeggio di Chiaia”, l’attuale villa vicino al lungomare. Ma quella scelta suscitò forti polemiche negli addetti ai lavori, che sapevano l’aria salmastra non avrebbe certo giovato alla statua in marmo. Fu così che Ferdinando tornò sui propri passi, e dispose che il Toro Farnese fosse trasferito nel Museo Nazionale, dov’è ora.
LA FONTANA
Ed infine, una curiosità fondamentale. Michelangelo, osservando il Toro Farnese, propose di portarlo davanti a Palazzo Farnese, in Campo dei Fiori, per farne una fontana. Quando si dice “l’occhio allenato dell’artista”. Michelangelo ci vide giusto. Il Toro Farnese nacque proprio come fontana, e l’incredibile scoperta è recentissima.
Nel 1984, nell’ambito di ulteriori lavori di restauro, fu scoperto ai piedi del toro un condotto che parte dal basso e giunge fino all’estremità alta della scultura. Un condotto che non poteva essere adibito che al passaggio dell’acqua di un’ipotetica fontana. E si spiegano così anche quegli animali che sembrano allungarsi verso il basso per abbeverarsi.