Traditore dei Borboni, doppiogiochista per conto del Conte di Cavour, responsabile agli albori del rapporto Stato-Camorra: i tremendi capi d’accusa che la storia ha impresso a fuoco sulla figura di Liborio Romano pesano sulla sua reputazione e sul destino del meridione come macigni. Uno dei personaggi meno noti della storia dell’Unità d’Italia, è risultato essere la chiave dei Savoia per aprire il forziere del Regno delle Due Sicilie.
Eppure il suo amore per Napoli, per il Sud e per gli ideali costituzionali e liberali sembrano essere fuori da ogni dubbio. Scoprire come può una figura storica risultare tanto ambivalente significa intraprendere un viaggio all’interno di una personalità complessa, o che riteneva di essere tale, rivelandosi infine null’altro che una marionetta col dono del carisma popolare. Dono preziosissimo per chi giostrava i suoi fili.
Liborio Romano nasce a Patù, in provincia di Lecce, nel 1795. I suoi studi lo portano a diventare docente di Diritto Civile e Commerciale dell’Università di Napoli, presso la quale s’era laureato poco prima. Nel 1820 viene destituito dal suo incarico e relegato nel suo paese di nascita, a causa delle idee liberali di cui s’era dimostrato simpatizzante, duranti i moti del 1820-1821.
Accantonata la parentesi dell’insegnamento universitario, esercita da avvocato. Questa volta viene addirittura imprigionato, con l’accusa di essere membro di una società segreta, e trasferito nel carcere politico di Santa Maria Apparente, a Napoli. Successivamente liberato, ma tenuto sotto stretta sorveglianza, e con l’obbligo di non lasciare Napoli, Don Liborio (così veniva chiamato) nel 1848 è tra i firmatari di chi chiede la costituzione a Ferdinando II.
Nello stesso anno viene nuovamente arrestato, poichè implicato nei moti rivoluzionari del ‘47-’48 (accusa priva di riscontri effettivi), prima di essere esiliato in Francia fino al 1854. Fino al 1859 Liborio Romano mantiene un profilo bassissimo, ritirandosi a vita privata. Nel frattempo a Ferdinando II succede Francesco II. Ha ufficialmente fine il quarantennio di persecuzioni, pedinamenti, e reclusioni di Don Liborio, in quanto “personaggio pericoloso”.
Comincia per lui, con Francesco II, una fase del tutto nuova. Viene nominato Prefetto della polizia dal re, e nel 1860 Ministro dell’Interno e della Polizia. Un balzo in avanti non da poco, giustificato dall’esigenza del re di poter meglio gestire le voci dissidenti e dimostrare la sua disponibilità alla svolta riformatrice che sembrava inarrestabile, tra le pieghe dei vessilli di Garibaldi (che già macinava successi in Sicilia).
Insomma, Liborio Romano si ritrova a ricoprire un ruolo di primissimo piano presso i Borboni, casata che aveva da sempre osteggiato, e da cui era stato perseguitato nel corso di una vita intera. Decide di approfittarne. Convinto che l’annessione all’Italia era il destino ineluttabile di Napoli, intavola trattative segrete con Cavour e Garibaldi, rivelando i piani di Francesco II, man mano che ne viene a conoscenza.
Cavour, mente sopraffina e spregiudicata, coglie al balzo l’occasione per avanzare richieste esplicite a Don Liborio: perchè non utilizzare la camorra per destabilizzare l’ambiente contro il sovrano Francesco II, facilitando a Garibaldi l’ingresso in una città divisa? Liborio Romano recepisce il messaggio, ma agisce per evitare che Napoli affoghi in una guerra fratricida tra sostenitori dei Borboni e liberali sostenuti dalla camorra.
Suggerisce velatamente a Francesco II che sarebbe stato meglio per lui e per tutti se fosse fuggito prima dell’arrivo di Garibaldi. Francesco II ascolta il suo Ministro, e probabilmente fu questa la ragione per cui si riuscì ad evitare un massacro annunciato a Napoli. I garibaldini si sarebbero presi la città con la forza, e tanto più spargimento di sangue ne sarebbe seguito, quanto più Francesco II si fosse ostinato nel richiedere ai napoletani una strenua ed inutile resistenza.
Rimasto provvisoriamente solo al governo della città, evitato il caos che Cavour auspicava, Liborio Romano affida al camorrista Tore ‘e Criscienzo il compito di formare un esercito che potesse garantire l’ordine in vista dell’arrivo di Garibaldi. Tore accetta, e riceve come spassionato “regalo” la libertà e la fiducia dal Piemonte, che gli affida un carico di armi clandestine (si parla di 12000 fucili) da utilizzare per la conquista di Napoli da parte di Garibaldi.
Tore ‘e Criscienzo fa quello che gli si dice. L’esercito viene formato: è la Guardia Cittadina, 9600 uomini (di cui un buon numero camorristi), con 1200 fucili più i 12000 inutilizzati da Garibaldi. Per otto mesi spadroneggerà sulla città di Napoli senza alcun controllo, garantendo l’ordine, certo, come promesso a Don Liborio, ma a prezzo di abusi e crimini di ogni genere, perpetrati quotidianamente nell’impunità più assoluta.
Il primo passo era comunque controllare che nulla avvenisse in occasione dell’ingresso di Garibaldi a Napoli, il 7 Settembre del 1860. Ed in effetti nulla accade, grazie alla supervisione camorrista dell’evento. Garibaldi arriva a Napoli in treno, da ospite, e non da conquistatore. Don Liborio è al suo fianco, consapevole che la versione non cruenta del piano di Cavour per la conquista di Napoli, è perfettamente riuscita.
Cavour non molla la presa. Convince un altro avvocato, il Conforti, ad organizzare un referendum popolare per annettere il Sud all’Italia. I camorristi hanno l’ordine di scortare i votanti per “spiegar loro gentilmente” le ragioni del si, ed accertarsi che quel “si” venga effettivamente apposto sull’apposito foglio. Ovviamente è un plebiscito. Napoli diventa improvvisamente una Provincia, lei, tra le capitali europee una delle più note e rispettate.
Ancora Cavour in primo piano. Dopo aver sfruttato i due avvocati, è il momento di sbarazzarsi di loro. Troppe cose sanno, troppo scomoda la gestione dei loro umori. Per il Conforti decide lo si elegga magistrato, contento e silenzioso servitore dello Stato. Per liberarsi di Don Liborio la soluzione è farlo entrare in Parlamento, e condannarlo all’indifferenza generale.
Dopodiché toccherà alla camorra, sperimentare il ripudio piemontese. Tore ‘e Criscienzo viene arrestato, anche se in prigione finisce per condurre la stessa vita che conduceva fuori, tra riverenze, omaggi, e rispetti, da parte di pregiudicati e guardie penitenziarie. Don Liborio, nel frattempo, comincia ad aver chiara la situazione. Era stato una pedina.
Prova a far valere la sua posizione di parlamentare per far presente a Cavour che il meridione andava aiutato, se si voleva un’Italia più forte. La questione meridionale viene quindi affrontata per la prima volta nel memorandum di Don Liborio, spedito sotto forma di corposissima lettera al Conte di Cavour. Ma resta inascoltato, vuoi per la morte di Cavour, vuoi perchè ormai Don Liborio è una vecchia figura superata dagli eventi.
Dopo aver dichiarato pubblicamente, in un impeto di stizza, i nomi di chi, tra i piemontesi, si era arricchito grazie al ratto spregiudicato del Sud Italia, Don Liborio Romano si dimette, in aperta polemica con la gestione piemontese delle questioni napoletane e meridionali in generale, ritirandosi a vita privata, nel Salento.
Morirà con la convinzione di aver agito per il meglio, in occasione del tradimento ai Borboni, dei contatti con la camorra, del doppio gioco, della gestione di Garibaldi, ma tra atroci rimorsi e rimpianti, per quanto mal riposta è stata la fiducia assegnata a certi personaggi, molto più furbi di lui. Molto più furbi di quanto non avesse previsto.